Due anni sono passati da quel fatidico 1 ottobre, il giorno in cui 2 milioni di catalani si recarono a votare per un referendum sull’indipendenza organizzato dal governo catalano in maniera illegale. Due anni da quando il governo spagnolo, guidato da Rajoy, rispose prendendo a manganellate i votanti che volevano depositare in urne, inutilmente cercate dalla polizia spagnola, delle schede senza nessuna validità, secondo il Tribunale costituzionale. Chi diede l’ordine di picchiare selvaggiamente cittadini inermi ancora non si sa, perché nei vari processi in corso, su denuncia del comune di Barcellona che si costituì parte civile subito dopo quegli incidenti, nessuno se ne è voluto prendere la responsabilità.

SONO PASSATI DUE ANNI, ma sembra un’eternità politicamente. Il governo catalano di allora è in carcere o in esilio. La sentenza, con accuse gravissime di sedizione e ribellione, dovrebbe uscire l’11 ottobre. Il governo catalano attuale, guidato da Quim Torra e formato dagli stessi partiti di allora, è fermo nella rappresentazione di un’unità di intenti che in realtà è lontana dalla realtà. Esquerra Republicana è oggi assai più pragmatica, mentre Junts per Catalunya segue la linea dello scontro verbale tracciata dall’ex presidente Carles Puigdemont e seguita, con buona dose di retorica, da Torra. Nella dichiarazione dell’evento istituzionale sottoscritta da tutti i suoi ministri, Torra parla di «avanzare senza scuse verso la Repubblica catalana», e dell’1 ottobre come una data che per sempre sarà «fondazionale del repubblicanismo». Anche se stavolta, al contrario di un anno fa, si è guardato dal chiedere ai Cdr, i Comitati di difesa della repubblica (di cui 7 membri sono stati arrestati nei giorni scorsi con accuse gravissime di terrorismo) di «fare pressione».

Vari partiti come la Cup ed entità indipendentiste hanno preparato un manifesto molto rivendicativo: «Una sentenza di condanna ai leader politici e sociali implicherà un attacco ai nostri diritti fondamentali», e ora chiedono ai cittadini di «rispondere in maniera massiccia con la lotta nonviolenta e la disobbedienza civile», pur senza specificare quali sarebbero le iniziative di protesta a cui stanno pensando. Anche perché finora sembra non ci sia un accordo per una risposta unitaria. Anche i Cdr hanno diffuso un comunicato assai battagliero: «Basta con le accuse, sappiamo costruire tutte assieme» la repubblica, e «lo abbiamo dimostrato» dicono. «Dobbiamo fare un passo deciso in avanti».

Fra le tante manifestazioni e eventi organizzati fin dall’alba di ieri, quella a Barcellona coordinata dall’associazione indipendentista Anc alle 7, che ha visto la partecipazione di 18mila persone, era aperta da uno striscione che diceva «Finiamo quello che abbiamo iniziato. Guadagniamoci l’indipendenza». In nottata, anche una fiaccolata fino al carcere dove sono rinchiusi i leader indipendentisti.

IL CLIMA IN CATALOGNA è destinato a surriscaldarsi sempre di più, con la sentenza alle porte e con le elezioni a poco più di un mese. L’altro ieri, alla vigilia dell’1 ottobre, si è dimesso il capo dei Mossos. Ufficialmente perché aveva portato a termine i suoi compiti. Ma la tempistica appare sospetta.

Oltre alla mozione di sfiducia contro Torra il 7 ottobre (promossa da Ciudadanos ma che appoggerà solo il Pp), il livello della polemica l’ha alzato pericolosamente Pedro Sánchez, ventilando la possibilità di ricorrere nuovamente all’articolo 155, cioè un commissariamento dell’autogoverno catalano, «se dovesse essere il caso» dopo la sentenza del processo. Secondo lui un governo ad interim può farlo, ma molti giuristi ne dubitano (ci vuole l’ok del Senato, che è sciolto). Al che, il numero 3 di Podemos, Pablo Echenique, ha commentato: «Il Psoe farà la stessa cosa in Catalogna che farebbe il Pp».