C’è tutto Genette, con la sua sferzante (auto-)ironia, nella definizione scherzosa che ha dato, una decina d’anni fa, della narratologia, la disciplina che più di ogni altro ha contribuito a fondare negli anni d’oro della teoria letteraria, intorno al 1970: «una pseudo-scienza perniciosa», il cui «gergo ha indotto disgusto per la letteratura in tutta una generazione di analfabeti». Dove il sarcasmo colpisce in modo equanime le pedisseque applicazioni scolastiche del suo metodo di analisi strutturale del testo narrativo e i pigri pregiudizi di studenti di per sé poco inclini ai piaceri della lettura.

L’AUTORE DI «FIGURE III», il libro che per almeno tre decenni è stato la bibbia di ogni matricola in lettere (oggi sta scomparendo dai programmi universitari), era il primo a farsi beffe del narratologically correct imposto dalle sue stesse opere e sciaguratamente diffuso, in Francia come in Italia, nelle scuole di ogni ordine e grado: parlando con libertà e passione della Recherche, l’opera su cui più assiduamente ha lavorato, gli capitava di dire Proust e non Marcel, confondendo autore e narratore, e lasciando di stucco interlocutori tanto ottusi da trasformare, come i manuali scolastici, le sue distinzioni teoriche e le sue categorie operative in soggetti di un’ontologia fantasma.
Gérard Genette, scomparso a ottantasette anni lo scorso 11 maggio, è stato innanzitutto un maestro di metodo. In tutta la sua opera, altro non ha fatto che insegnare l’arte del distinguo: proprio per questo sapeva che è più importante evitare di confondere un saggio critico con una conversazione, o un adolescente con un dottorando, piuttosto che una sillessi con una metalessi, o un racconto eterodiegetico con uno omodiegetico. Del resto, il gusto del paradosso, sempre ricondotto, in un lampo d’intelligenza, alla più limpida razionalità, non è peculiare dei soli scritti della vecchiaia: dell’impresa ciclopica che si era proposto, quella di mappare «la totalità del virtuale letterario», conosceva il fascino utopico ma anche la smisurata aleatorietà. Esattezza e ironia: questo il binomio, solo in apparenza ossimorico, che informa la scrittura, svelta e elegante nonostante i tecnicismi, di tutti i suoi libri. Nei quali voleva descrivere non solo i testi storicamente esistenti, ma anche quelli logicamente immaginabili: esattamente come Claude Lévi-Strauss ambiva a censire le forme di tutte le possibili società umane.

INSIEME AL GRANDE antropologo, Genette ha incarnato, dello strutturalismo, l’anima più concreta e razionale; Roland Barthes quella più inquieta e creativa. Forse c’entra il fatto che era figlio di un operaio tessile (l’autore dei Miti d’oggi, invece, di un capitano della marina mercantile); e se è un luogo comune, oggi, ripetere che le opere di Barthes invecchiano meglio, di certo sono gli strumenti di laboratorio messi a punto da Genette a rimanere indispensabili per chi è ancora convinto che la critica, come la letteratura, sia innanzitutto nobile artigianato.
L’officina nomenclatoria di Genette, al tempo stesso pedante e ludica, ha lavorato senza sosta per mezzo secolo, producendo un’inflazione terminologica che accanto a categorie imprescindibili (anacronie, fenomeni di durata e frequenza, modi del racconto, voce narrativa: impensabile farne a meno), ne ha diffuse di inutili o infelici, destinate a precoce obsolescenza: così i suoi «ipertesti», che nel 1981 indicavano testi derivati, in modo più o meno palese, da altri testi, si sono arresi alla fortuna che il termine ha avuto, in altra accezione, nel linguaggio del web. E tuttavia, nel momento in cui la scomparsa di Genette (si può ben dirlo senza retorica) chiude definitivamente la stagione più alta della teoria letteraria novecentesca, l’onestà intellettuale dei posteri impone di riconoscere che la voga attuale della narratologia anglosassone (i nipotini James, Forster e Booth) e delle sue approssimazioni impressioniste, o di quella austriaca (gli allievi di Stanzel) e della sua duttilità, o peggio di quella cognitivista (la cosiddetta neuronarratologia), risponde a esigenze prettamente accademiche di (vero o presunto) rinnovamento dei metodi, se non di mera produzione di carta da concorsi. Chi vuole capire come funziona un romanzo, usa e continuerà a usare Figure III (1972) e il Nuovo discorso del racconto (1983).

NON È TUTTAVIA IL TESTO, nella sua singolarità, a essere al centro delle preoccupazioni di Genette: che per questo non può essere considerato tout court un formalista, né semplicemente un narratologo, anche se ha indubbiamente contribuito a quello sbilanciamento dei valori che oggi induce il senso comune a identificare la letteratura con i soli generi narrativi.
La disciplina cui ha dedicato i suoi sforzi più costanti è la poetica (perciò il titolo della rivista fondata nel 1970 con Hélène Cixous e Tzvetan Todorov, «Poétique»): lo studio, cioè, dell’«insieme delle categorie generali e trascendenti – tipi di discorso, modi d’enunciazione, generi letterari, ecc. – cui appartiene ogni singolo testo». Di qui l’interesse per la riscrittura (parodia, pastiche, imitazione) e per i «dintorni del testo», studiati rispettivamente in due grandi libri come Palinsesti (1982) e Soglie (1987); e la costante riflessione sulla natura stessa del fatto letterario, affrontata con uno scetticismo mai rinunciatario. Esemplare l’incipit di Finzione e dizione (1991): «avrei potuto gratificare questo saggio di un titolo ch’è stato grossolanamente usato: Che cos’è la letteratura?». Dove la stoccata a Sartre si capovolge prontamente in autoironia («a domanda sciocca, nessuna risposta»), mentre il saggio imposta l’analisi di quei rapporti fra fiction e non fiction che diventeranno di attualità, anche militante, nel nuovo secolo. Non a caso, esaurita la stagione strutturalista, Genette scriverà un saggio di estetica in due volumi, L’opera dell’arte (1994 e 1997), fedele al partito preso di un pragmatismo razionalista che lo porta a scegliere come interlocutore privilegiato Nelson Goodman.

È la conclusione di un percorso – dalla letteratura alla filosofia analitica – per certi versi speculare a quello seguito dal coetaneo Jacques Derrida, che di Genette era stato collega e sodale nel 1959, quando entrambi insegnavano in un oscuro liceo di provincia, a Le Mans: due ‘vite parallele’ forse solo in apparenza antitetiche (strutturalismo e post-strutturalismo, tecnicismo scientista e decostruzione), emblematiche della cultura europea del secondo Novecento.

UNA PARABOLA fin troppo esemplare dell’ascesa e del declino non solo dello strutturalismo, ma della teoria letteraria tout court, è disegnata invece dalla ricezione dell’opera di Genette in Italia: il suo primo libro, Figure, del 1966, è stato tempestivamente tradotto tre anni dopo da Einaudi, che ha più o meno prontamente pubblicato anche i principali volumi degli anni successivi, fino a Soglie. I due libri di estetica, invece, sono usciti per i tipi di un piccolo editore universitario (Clueb di Bologna); le opere successive non sono mai state tradotte.
Dell’ultima fase di Genette, aperta nel 2006 con Bardadrac – ancora un neologismo, che allude giocosamente alla confusione di oggetti eterocliti buttati alla rinfusa in un sacco –, e proseguita a cadenze quasi regolari con Codicille (2009), Apostille (2012), Epilogue (2014) e Postscript (2016), nulla è pervenuto al lettore italiano: ed è un vero peccato, perché l’understatement dei titoli, che annunciano null’altro che codicilli, postille, epiloghi e poscritti, nasconde la ricchezza e la complessità di un moderno zibaldone, nato sotto il segno di Montaigne e misuratissimo nel mescolare con apparente nonchalance riflessioni filosofiche, ricordi autobiografici, giudizi fulminanti sulla letteratura e sul mondo. Perché Genette è stato, dagli anni Sessanta fino a ieri, non solo un teorico, ma anche un grandissimo critico: la finezza di tante sue osservazioni – su Proust, su Flaubert, su molti altri classici non solo francesi – smentisce ogni sospetto di arido tecnicismo; e come Barthes è stato, sia pure in modi diversissimi, anche uno scrittore: che in Italia quasi nessuno conosce.