In una città come Venezia, oramai quasi universalmente identificata con un parco a tema rinascimentale per turisti, una mostra curata da Daniel Tudor Munteanu, Sara Favargiotti e Davide Tommaso Ferrando ci conduce in un complesso di case popolari costruite alla Giudecca negli anni Ottanta, su un progetto di altissima qualità firmato da Gino Valle. Si tratta della seconda edizione di Unfolding Pavilion (in programma fino al 30 maggio, in concomitanza con l’apertura della Biennale Architettura, che si inaugura domani per concludersi il 25 novembre). Un’iniziativa nata nel 2016, in un appartamento della Casa alle Zattere di Ignazio Gardella, con l’obbiettivo di aprire al pubblico spazi di valore architettonico poco conosciuti e/o inaccessibili.

Perché avete scelto un intervento di edilizia pubblica come quello di Gino Valle? 
Ce ne siamo innamorati, è un capolavoro. Il progetto è uno degli effetti virtuosi di una legge emanata ad hoc dal Comune di Venezia, che consentiva di espropriare terreni privati all’interno del centro storico per fornire alloggi agli sfrattati. L’area su cui sorge è caratterizzata da un tessuto prevalentemente industriale, con grandi edifici in mattoni, come il Mulino Stucky e il complesso Ex Dreher. Le case di Valle, anch’esse in mattoni, confermano il carattere del luogo e lo arricchiscono di almeno tre elementi principali: un generoso sistema di spazi collettivi al piano terra che richiama, nelle sue compressioni e dilatazioni, la spazialità delle calli e dei campi veneziani; un’organizzazione planimetrica «a tappeto» che dota ciascun alloggio di un ingresso indipendente; e una sezione digradante che offre alla maggior parte delle unità abitative una vista sulla laguna. Il progetto è impostato su una griglia modulare che definisce forma e dimensioni di tutte le sue parti, riducendo così i costi di costruzione e permettendo una grande varietà tipologica.

Dopo che è passato un trentennio, in che stato versano queste case? E chi le abita?
La prima impressione è quella di trovarsi all’interno di un quadro di De Chirico: spazi perfettamente misurati e tagliati diagonalmente da ombre nettissime, ma privi di vita. Questo si deve, principalmente, al naturale invecchiamento degli abitanti e all’assenza di servizi commerciali al piano terra, nonché al fatto che circa un decimo degli alloggi, tra cui quello sul quale stiamo intervenendo, si trova attualmente in stato di abbandono. Mentre la struttura in mattoni e cemento armato regge bene il passare del tempo, le finiture non sono della medesima qualità.
Nella mostra saranno esposti solo alcuni progetti di membri di Little Italy, chiamati a reagire al contesto architettonico in cui si trovano…
Little Italy è un progetto di ricerca, ricognizione e attivazione dei più interessanti tra gli architetti italiani che sono nati negli anni ottanta, curato da Sara Favargiotti e Davide Tommaso Ferrando. Obiettivo è far emergere le caratteristiche di una generazione che più di altre ha dovuto confrontarsi con tre grandi transizioni: una geografica, con l’allargamento degli orizzonti professionali dalla scala nazionale a quella internazionale; una​ mediatica, con l’accostamento della comunicazione digitale a quella cartacea e la diffusione dei social network; e una economica, con il passaggio da un mondo in crescita a uno in crisi, recessione e (timida) ripresa.

Che cosa vedranno i visitatori?
Opere originali – fotografie, disegni, modellini, riviste, filmati e installazioni site-specific – che reinterpretano l’idea di Gino Valle e un programma di eventi dedicati alla sua figura e al progetto originario, al social housing in generale, ai concorsi di progettazione e ai nuovi mezzi di comunicazione con, tra gli altri, Baart Lootsma, Beatriz Colomina, Léa-Catherine Szacka.

Si può affermare che «Unfolding Pavilion» rappresenti una critica strutturale al Padiglione Italia ?
Da diversi anni, il «Padiglione Italia» non esprime concetti innovativi o sperimentali, anche perché la sua fisionomia è quasi sempre affidata a un architetto, e non a un curatore (cosa che non accade per la Biennale d’arte). Il risultato è la selezione di un numero esorbitante di progetti, priva di una riflessione critica su cosa significhi curare un padiglione oggi, e dunque anche un progetto sul processo, prima ancora che sul risultato. Da questo punto di vista, l’«Unfolding Pavilion» presenta un approccio diverso, che potremmo chiamare di «guerrilla curating», che rende visibile un’altra idea di architettura italiana.

Tornando all’edilizia sociale, la combinazione tra le politiche urbane orientate al turismo e l’avvento di Airbnb renderebbero urgenti dei piani di ripopolazione del centro a prezzi accettabili. È possibile parlarne, dopo anni di totale rimozione del problema?
Non è solo possibile: è necessario. Venezia assomiglia a una vera e propria città-laboratorio, che si trova davanti a un bivio fondamentale. Nel prossimo futuro, infatti, dovrà scegliere se trasformarsi in un nuovo tipo di città, definito dall’abitare temporaneo e dunque da un’idea diversa di cittadinanza e servizi; oppure, ricominciare a sviluppare politiche urbane in grado di garantire la residenzialità non solo alle classi meno abbienti, ma anche alla sempre più ampia «area grigia» costituita da chi non ha i requisiti per accedere all’edilizia pubblica, ma nemmeno reddito sufficiente per accedere al mercato immobiliare privato, a cominciare dai giovani.