Chi sa cosa ne avrebbe detto il Vate? Poiché il Guerriero fu riportato in luce nell’autunno del 1934 e restaurato e presentato al pubblico due anni dopo: negli anni scuri di un D’Annunzio vicino a morire, quando l’amico archeologo Antonio De Nino, «peligno della grande stirpe», era ormai da un trentennio nella compagnia dei fantasmi di una giovinezza lontana – la cavalcata nelle Gole del Sagittario! –, né poteva più fargli da guida alle antichità d’Abruzzo.
Troppo tardi. Eppure il Guerriero avrebbe pizzicato molte corde di quell’impareggiabile strumento musicale, in cui consisteva il suo diuturno artigianato di poeta. Un guerriero, appunto: probabilmente un re, il re dei Vestini, l’icona superumana di un’anima italica molto più antica dell’Italia della storia, modellata in forme non classiche, anacronistiche rispetto a qualunque tempo e perfino nella morte aggressive.
Il Guerriero veniva da Capestrano, uno di quei selvatici borghi abruzzesi e molisani, arrampicati di roccia in roccia e coronati dell’immancabile castello – prima dei Piccolomini, poi dei Medici – come ad Anversa la lugubre dimora dei De Sangro. Capestrano era nota per un suo Santo famoso del quindicesimo secolo, il francescano Giovanni: figura per la verità non simpatica di accanito inquisitore e cacciatore di Ebrei, che nondimeno piacque a Pio XII designare «apostolo d’Europa». Ma dal 1936 in poi Capestrano è indissolubilmente associata al suo Guerriero.
Lu Mammocce, il Ragazzotto di pietra, lo trovò Michele Castagna – era il mese di settembre –, tagliando scassi da viti in un posto chiamato Cinericcio – forse per via del suolo reso carbonioso dalle incinerazioni –, qualche chilometro a Nord-Est del paese, oggi più o meno sulla sponda settentrionale del piccolo lago di Capodacqua, creato nel 1965 da una diga del fiume Tirino. Castagna rinvenne dapprincipio il frammento della statua corrispondente alla parte superiore del corpo, spezzato alle ginocchia; poi trovò il singolare elmo a larga tesa e, presso l’elmo, il torace acefalo della figura femminile (la cosiddetta Dama), che accompagnava il Guerriero.
Si racconta che i lacerti scolpiti nel tenero calcare locale restassero incustoditi sul terreno per una ventina di giorni, e che fosse il Comandante della stazione dei Carabinieri a riconoscere per primo l’importanza della scoperta, facendo trasportare in paese, a casa del Castagna, il frammento maggiore. A seguire, un sopralluogo dell’ispettore onorario della vicina Ofena – che ereditava il toponimo dell’abitato antico, Aufinum (o Aufina) – e l’intervento istituzionale delle Soprintendenze dell’Aquila e del Lazio. Mentre i frammenti scultorei già recuperati venivano trasferiti a Roma al Museo Nazionale delle Terme, in località Cinericcio si scavò per circa tre mesi, con la scoperta di nuove porzioni delle sculture (le gambe del Guerriero, altri frammenti della Dama) e della contestuale necropoli, che in tale circostanza rivelò una ventina di tombe a inumazione e cinque a cremazione.
Straordinaria – specie se comparata a certe cattive abitudini di anni a noi più vicini – la rapidità con cui fu condotto il primo restauro delle sculture, ne fu assicurata l’esposizione al pubblico e dato il resoconto scientifico della scoperta: al 1936 risalgono infatti sia il restauro sia la pubblicazione della monografia di Giuseppe Moretti, significativamente intitolata Il guerriero italico di Capestrano. La primissima esposizione, alle Terme, pare che accostasse il Guerriero all’Afrodite di Cirene – restituita, come si ricorderà, da Berlusconi a Gheddafi nel 2008 – con ossimoro visivo sottilmente propagandistico, significando la solida affidabilità del genio guerriero e colonizzatore italico, a riscontro della bellezza seduttiva di una grecità offerta senza veli né difese ai conquistatori d’Africa.
Ma la sede più consona per le sculture di Capestrano fu naturalmente il Museo di Villa Giulia, da cui vennero poi in via definitiva trasferite nel Museo di Villa Frigerj a Chieti – inaugurato dal Presidente Gronchi nel 1959 –, con nuovo restauro diretto da Valerio Cianfarani e consulenza del famoso esperto Pico Cellini. Oggi il Guerriero e la Dama sono ancora esposti a Chieti, nella sala detta «al di là del tempo», con sobrio e fascinoso allestimento firmato nel 2011 da Mimmo Paladino.
Non è qui luogo di ripercorrere un dibattito bibliografico accanito e spesso divisivo, che muove dagli anni trenta e quaranta, con contributi di studiosi di altissimo profilo, quali Axel Boethius, Silvio Ferri e Massimo Pallottino, e si è riattivato negli anni Duemila, con Adriano La Regina, Luisa Franchi Dell’Orto, Oliva Menozzi e altri. Ma sembra interessante estrarne alcune linee di tendenza rivelatrici di più ampi contesti storico-culturali: al solito, indagare l’antico o, più esattamente, i modi della riflessione moderna sull’antico aiuta a capire meglio la modernità, sicché gli antichisti – quando lavorano con piena coscienza di quello che fanno – si rivelano i migliori modernisti.
La discussione dell’immediato anteguerra e dell’immediato dopoguerra può ricordare quella che si era accesa negli anni venti e trenta sull’Apollo di Veio e sulle altre monumentali terrecotte del Portonaccio, caratterizzata da una percezione progressivamente anellenica di quei capolavori, infine raccontati come primo capitolo etrusco e nondimeno nazionale di una storia dell’arte italiana. Si enfatizzavano gli aspetti iconografici e morfologici apparentemente incompatibili coi modelli greci, per elaborare una storia dell’arte etrusca (e italica) tutta costruita in negativo, cioè come somma di discrasie e difformità.
Vent’anni dopo, l’improvvisa epifania del Guerriero – pur con tutte le sue stravaganze o «capestranezze», per dirla con Pallottino: lo statuto morfologicamente ibrido fra stele e statua a tutto tondo, la curiosa stilizzazione dell’elmo a disco crestato, l’assenza di una relazione anatomicamente organica tra il volto, le orecchie, la nuca – appartiene a un momento assai diverso: la propaganda di regime ha ormai scelto, di fatto, la romanità augustea, e la fortuna etrusca si sta avviando a temporaneo declino, mentre il gusto anticlassico cerca spazio in contesti marginali e periferici. Da rileggere in tal senso il tentativo di Ferri, demolito da Pallottino per il suo panceltismo – che potrebbe tuttavia trovare attualmente motivi di confronto più numerosi, più fondati e più convincenti.
Lasciate da parte nuove o seminuove capestranezze interpretative, ricamate intorno all’identità sessuale dell’immagine e a sue eventuali connessioni junghiane o gimbutiane con culti matriarcali, oggi la riflessione è generalmente orientata sull’interpretazione dell’iscrizione funeraria, nella lingua italica dei Vestini, dove figura il titolo regale (raki in caso indiretto) per il personaggio celebrato, Nevio Pompuledio, e si chiama Aninis il soggetto che gli fa la statua, artigiano o dedicante che sia. È evidente e non sorprende che l’interesse sia dunque rivolto molto più alla ricostruzione del quadro sociale e istituzionale delle comunità sabelliche nella prima metà del sesto secolo, che alla definizione critica di un fenomeno figurativo.
Quest’ultima andrebbe forse rimodulata secondo una prospettiva per così dire speculare, rispetto a quella degli anni quaranta. S’intende dire che l’apparente primitivismo del Guerriero non deriva dalla debolezza grammaticale di un ambiente poco colto perché esemplarmente periferico, ma è piuttosto segnale di un tessuto di cultura che saldava Adriatico e Tirreno attraverso un ordito irregolare (e tuttavia non debole né episodico) di nodi transappenninici meritevoli d’essere indagati e storicamente valorizzati.