Un giorno, quando la Costituzione sarà davvero applicata in ogni sua parte e le forze di polizia saranno custodi gelose dell’etica democratica, il caso Pigozzi sarà citato nei manuali di formazione per gli agenti di tutti gli apparati militari e di sicurezza.

Servirà per spiegare ai nuovi entrati in quale stato di degrado versavano le forze dell’ordine e il ministero dell’interno intorno agli anni 2000-2015. In quel periodo buio, diranno i futuri insegnanti ai giovani allievi, poteva accadere che un agente gravemente indiziato di maltrattamenti su detenuti, venisse ugualmente impiegato in attività di custodia di altri detenuti, col risultato di incappare in un secondo processo, stavolta per violenze sessuali compiute su quattro donne, ospiti in stato di fermo nelle celle di sicurezza della questura.

I giovani allievi, ascoltando questa storia, si stupiranno e penseranno angosciati alla sorte di quelle donne, sottoposte a violenze che potevano e dovevano essere evitate. Si sentiranno però rassicurati al pensiero che lo stato italiano, anziché occultare un episodio così grave, lo aveva inserito nei manuali di formazione delle nuove leve, facendo quindi tesoro degli errori del passato.

Quel giorno, naturalmente, potrebbe non arrivare mai e di sicuro non arriverà se il caso in questione sarà relegato nelle cronache locali dei quotidiani e resterà oggetto – bene che vada – di battute sarcastiche nei corridoi della questura di Genova.

L’agente Massimo Pigozzi, classe 1963, nel luglio del 2001 durante il G8 genovese fu protagonista di uno dei più noti e citati episodi avvenuti nella caserma-carcere di Bolzaneto, luogo di maltrattamenti e torture entrato nella storia (nera) della polizia italiana. L’agente è stato condannato in via definitiva a tre anni e due mesi di carcere per avere divaricato le dita della mano sinistra, fino a lacerare la carne, di un cittadino sottoposto a fermo e passato poco prima per il cosiddetto comitato di accoglienza, cioè due file di agenti che colpivano con calci, sputi e manganellate i detenuti appena scesi dalle camionette.
Nel 2005 l’altro episodio. L’agente Pigozzi a quel tempo è ancora in servizio e adibito alla custodia di fermati e arrestati, perché il ministero dell’interno, il capo della polizia, la questura di Genova avevano pensato bene di ignorare le ripetute richieste delle vittime degli abusi compiuti durante il G8 del 2001, di Amnesty International e altre organizzazioni, che premevano affinché gli indagati nei processi Diaz e Bolzaneto fossero esclusi da servizi che li mettessero a contatto diretto con i cittadini.

Pareva una misura di buon senso, rispettosa delle vittime, garantista verso i cittadini e utile anche alla complessiva credibilità della polizia di stato. Ma ai piani alti del potere la pensavano (e la pensano) in altro modo. L’agente Pigozzi nel 2005 fu denunciato da quattro donne, sottoposte a fermo di polizia, per violenze sessuali avvenute nelle celle della questura genovese. Pochi giorni fa la Cassazione ha confermato in via definitiva la condanna dell’agente Pigozzi a dodici anni e sei mesi di carcere per violenza sessuale aggravata e abbandono del posto di servizio.

La Cassazione – ecco la notizia che dovrebbe scuotere molte coscienze e far perdere il sonno a chi poteva e doveva intervenire e non lo fece – ha poi accolto il ricorso di una delle vittime delle violenze e obbligato anche il ministero dell’Interno a pagare un risarcimento, diversamente da quanto stabilito dai giudici di appello. Scrive la Cassazione che lo Stato «nonostante Pigozzi fosse già stato coinvolto in fatti di violenza contro soggetti in stato di fermo e condannato in primo grado (in realtà la prima sentenza è del 2008, ndr), ha ritenuto opportuno adibirlo ancora una volta allo svolgimento di mansioni che prevedevano il contatto diretto con le persone arrestate o fermate e che quindi rendevano elevatissimo il rischio di commissione di reati della stessa indole».

Il caso Pigozzi mette angoscia per la sorte toccata alle donne recluse nella camera di sicurezza della questura di Genova e fa disperare al pensiero di quella mistura di superficialità e protervia che traspare dal comportamento della scala gerarchica nel corpo di polizia, dalla questura in su: funzionari, alti dirigenti e via salendo fino ai ministri competetenti, sono rimasti del tutto indifferenti ad ogni considerazione di buon senso. Ancora oggi, con le sentenze Diaz e Bolzaneto passate in giudicato, non risultano provvedimenti disciplinari nemmeno contro gli agenti, i funzionari, i sanitari riconosciuti colpevoli in tre gradi di giudizio. E abbiamo ormai dimenticato che i picchiatori della scuola Diaz – mai sottoposti ad inchiesta giudiziaria – ripresero tranquillamente servizio nelle squadre mobili di appartenenza il giorno dopo la bella impresa compiuta la notte del 21 luglio 2001.

L’origine di tanta arrogante noncuranza è nelle deboli radici della cultura democratica all’interno delle forze di sicurezza. L’istinto che ha animato questori, capi della polizia, ministri degli interni e li ha indotti a ignorare tutte le richieste di sospensione degli agenti e ad agire semmai nella direzione opposta (vedi le promozioni accordate ai dirigenti imputati nel processo Diaz) è la stessa che Michelangelo Fournier espose ai giudici del tribunale di Genova quando si trovò a spiegare perché avesse mentito per sei anni su un episodio chiave della sua condotta nella notte della Diaz, alla guida del reparto mobile che avviò la mattanza all’interno della scuola trasformata in tonnara.
Solo nel 2007, deponendo in tribunale, Fournier ammise di avere assistito ai pestaggi (lui li definì «colluttazioni unilaterali»), mentre fino a quel momento aveva sostenuto di essere arrivato dopo, a cose fatte. «Se non ho parlato prima – disse Fournier – è stato soltanto perché ho sempre fatto parte di una famiglia di poliziotti: in quel periodo le forze dell’ordine erano già nel mirino e io non volevo gettare nuovo fango. È stato dunque un comportamento di estremo rispetto per la polizia come istituzione che non deve essere scambiato per omertà».

Questa affermazione, così tremenda per la sua logica autoreferenziale e così lontana dall’etica di un corpo di polizia in regime di democrazia costituzionale, esprime probabilmente una profonda verità, descrive cioè l’autentico stato della polizia, indica il malessere profondo di istituzioni in declino che hanno rinunciato ad esercitare il dovuto controllo democratico sugli organi di sicurezza. Il caso dell’agente Pigozzi, insomma, è la spia di una Costituzione che non riesce a persuadere gli uomini dello stato, abituati da secoli e a tutti i livelli – con qualche eccezione nella magistratura – a pensare che il «rispetto per la polizia» coincida con il rifiuto dell’autocritica, con la difesa ad oltranza dei propri uomini, con l’indifferenza per ciò che subiscono e anche per ciò che dicono i cittadini.

*Comitato verità e giustizia per Genova