«Eravamo scampati alla morte, non ne avevamo più paura; iniziò la paura della vita»: con queste parole Hadassah Rosensaft racconta il sentimento prevalente di molti ebrei sopravvissuti alla Shoah al momento della liberazione. Avevano perso le famiglie, gli amici, le proprie case e non avevano dove andare, perché non c’era nessuno ad attenderli da qualche parte. Freddie Knoller, internato a Belsen, descrive così l’arrivo delle truppe britanniche: «nessuno esultò. Un silenzio angoscioso caratterizzò il momento della nostra liberazione: eravamo troppo deboli, avevamo patito troppo per potere gioire».

Contrariamente alla rappresentazione oleografica che alcuni film hanno fissato nel nostro immaginario, il momento della liberazione dei campi non fu un’esplosione di esultanza, e non costituì il ritorno a una vita normale. Si chiudeva certo l’esperienza dello sterminio ma iniziava una storia, che sebbene meno tragica era ancora assai drammatica: prolungata e angosciosa, l’incertezza sul che fare, sul dove trasferirsi, sul come immaginare il domani trasformava i sopravvissuti in displaced persons, individui spiazzati, sfollati: insomma, profughi. È questo il versante meno battuto degli studi sulla Shoah, che viene indagato con puntiglio dallo storico americano Dan Stone in La liberazione dei campi La fine della Shoah e le sue eredità (Einaudi, pp. XXXIII-272, euro  23,00).

Svolta su una serie ragguardevole di fonti, la ricerca racconta in una prima parte la conquista dei campi da parte delle truppe sovietiche e anglo-americane; mentre nella seconda parte si diffonde sulla sorte degli scampati sia dal punto di vista soggettivo, indagando le loro speranze e le loro angosce, sia da quello della politica internazionale: i profughi divennero infatti una pedina non trascurabile nel grande gioco diplomatico che si aprì con l’avvio della cosiddetta guerra fredda.

La liberazione dei campi, a occidente come ad oriente, fu accompagnata da sbigottimento, incertezza, incomprensione. Alla vista delle truppe alleate i lager squadernavano uno scenario irreale, che ricorda da vicino L’inferno di Hyeronimus Bosch. I sopravvissuti apparivano macilenti, nudi o ricoperti di luridi stracci e coperte, sorta di scheletri viventi. Pochi tra loro corsero, al momento della liberazione, incontro ai salvatori, e ancor meno furono quelli che caddero in preghiera: la maggioranza restava ferma, e muta. Di fronte a loro anche i soldati più temprati dalla guerra scoppiavano non di rado a piangere: in molti casi era difficile anche solo distinguere i morti dai vivi, e anche questi erano in uno stato di inedia tale da farli sopravvivere solo poche ore o qualche giorno. Nel propagandare la despecificazione degli ebrei e degli altri gruppi umani destinati allo sterminio, il nazismo era riuscito nell’intento di produrre un meccanismo infernale capace di trasformare gli individui in esseri spettrali, privandoli delle fattezze della specie umana. Marcus Smith, un medico giunto a Dachau il 30 aprile 1945 commentò così l’irrealtà che gli si parava davanti: «Chiudo gli occhi, questo non può essere il XX secolo».

Non fu tuttavia facile per i liberatori, e di conseguenza per l’opinione pubblica internazionale, comprendere le dimensioni e la specificità della Shoah, e il libro di Stone consente bene di capire il perché: i campi non erano tutti uguali e si distinguevano originariamente in campi di concentramento (destinati alla repressione degli avversari politici e/o dei gruppi sociali perseguitati dal regime) e in campi di lavoro coatto. Durante la guerra, grazie soprattutto all’azione delle SS di Himmler, i campi di concentramento si trasformarono in parte in campi di eliminazione degli oppositori politici, reali o immaginari, per poi divenire qualcosa di ancora diverso, strumenti di annientamento al servizio della Shoah. Inoltre, i principali campi di sterminio si trovavano ad est e vennero dunque «scoperti» non dagli alleati ma dalle truppe sovietiche.

Il regime sovietico inquadrava la questione ebraica all’interno della lotta antifascista e non aveva perciò interesse a sottolineare la specificità del genocidio ebraico rispetto allo sterminio di altri gruppi. La lentezza e le difficoltà con cui l’opinione pubblica internazionale mise a fuoco la Shoah dipese dunque anche dal fatto che i campi di sterminio erano solo una parte dell’universo concentrazionario, e d’altra parte i tedeschi in ritirata cercarono di distruggerne le prove per quanto poterono, continuando l’opera di annientamento attraverso quel trasferimento forzoso di prigionieri noto come «marce della morte». Inoltre, gli ebrei sopravvissuti erano una minoranza, circa 90.000, meno di un terzo della popolazione internata che venne liberata, in un contesto di milioni di persone tra sfollati, profughi e rifugiati che attraversavano l’Europa in ogni direzione per tornare a casa.

La scelta del dove andare fu per molti sopravvissuti profondamente angosciosa. La scoperta dell’annientamento delle proprie famiglie produceva un senso di solitudine e di smarrimento esistenziale tali da rendere difficile ogni scelta. Come disse Charlotte Chaney, un’infermiera statunitense che partecipò alla liberazione di Dachau, «il loro incubo era finito, o forse, appena iniziato». Molti sopravvissuti si acconciarono a rimanere nei campi profughi allestiti dall’Unnra, l’organizzazione delle Nazioni Unite per le vittime della guerra. Questi campi rimasero aperti per un tempo assai lungo, sino ai primi anni cinquanta e in essi si crearono comunità autonome, spesso capaci di condizionare le scelte degli alleati. In particolare, fu consistente il movimento degli ebrei mobilitatisi per ottenere dai Britannici il permesso di andare in Palestina: molti fra loro si aggiunsero così a quegli ebrei, in tutto circa 100.000, che vi si recarono, grazie all’organizzazione Brikhah, clandestinamente.

Le relazioni in rapido deterioramento tra gli alleati e i sovietici complicarono la questione della sorte degli ex internati. Da una parte i sovietici attaccavano la posizione britannica, ostile per ragioni geopolitiche a una massiccia emigrazione ebrea in Palestina, accusando il governo del Regno Unito di insensibilità morale. Dall’altra gli alleati incoraggiavano gli sfollati provenienti dall’est Europa, come ad esempio gli Ucraini, a non tornare nei paesi del blocco sovietico. Gli Stati Uniti, poi, esercitavano pressioni sui britannici per abbandonare la linea contraria al popolamento ebraico della Palestina.

La pressione degli sfollati, unita a quella della locale guerriglia armata ebraica, valse a rafforzare l’iniziativa politico-diplomatica statunitense, costringendo infine i Britannici a rassegnare il mandato e a consentire la nascita dello stato d’Israele nel maggio 1948.

Nel frattempo gli ebrei ex internati avevano vissuto in pieno le conseguenze della guerra fredda: l’Iro, la nuova organizzazione internazionale che sostituì l’Unrra fu in buona sostanza prona alle direttive statunitensi, volte a creare un ampio fronte anticomunista e disponibili perciò ad arruolare anche ex nemici: adottò così una politica di manica larga nella concessione dello status di rifugiati a gente dell’est Europa che talora aveva collaborato coi nazisti, un orientamento vissuto da tanti ebrei, vittime equiparate ai carnefici, come un’atroce beffa. Il libro di Stone non approfondisce questo punto, che avrebbe meritato più attenzione: è anche con questi sistemi, infatti, che fu permesso a tanti quadri intermedi del regime nazista o a suoi collaboratori di emigrare verso i paesi dell’America Latina. Le ragioni della politica avevano rapidamente prevalso e i profughi si trovarono allora, proprio come oggi, a viaggiare come vasi di coccio insieme a vasi di ferro.