Di origine brasiliana da parte di padre e portoghese da parte di madre, José Eduardo Agualusa è nato a Huambo, nell’Angola centrale, nel 1960, ha vissuto a Lisbona, dove ha studiato agronomia e silvicoltura all’Istituto superiore di agronomia, e a Rio de Janeiro. È tornato solo di recente in Africa. Questo nomadismo si riflette nella sua scrittura e delinea la parabola dell’esistenza umana nella sua frammentarietà, individuando nel racconto e nella cronaca i suoi generi d’elezione. Già noto come poeta, narratore e intellettuale in Brasile e Portogallo, dove collabora anche con quotidiani e stazioni radiofoniche, ha al suo attivo una lunga collaborazione con il traduttore Daniel Hahn, che ha portato molte sue opere in ambiente anglofono, e sta iniziando a ricevere riconoscimenti internazionali, come l’Independent Fiction Prize.

Teoria generale dell’oblio (ultima uscita italiana per Neri Pozza, che ha portato lo scrittore recentemente al festival di Mantova), narra di una portoghese espatriata a Luanda, Ludovica Fernandes Mano, che inizia una reclusione dal mondo mentre la guerra per l’indipendenza dal Portogallo esplode per le strade. La sua segregazione dura decenni. Mentre lei svanisce nell’oblio, parallelamente, nel mondo esterno si intrecciano le storie di altri personaggi, che sovrapponendosi alla vicenda traumatica di sofferenza, fragilità e apparente follia della protagonista concorrono a fornire un quadro della grande storia dal basso.

Parlando della sua opera, ricorre spesso tra i critici il richiamo al realismo magico. Quanto lo trova calzante e quanto la letturatura sudamericana può avere influenzato la sua scrittura?
Ho letto molto gli autori sudamericani da giovane, soprattutto Jorge Luis Borges e i suoi mondi sono molto simili ai miei. Gabriel Garcia Marquez venne in Angola nel 1977 invitato da Fidel Castro: arrivato a Luanda trovò una città creola e un’atmosfera assai simile a quella del Sudamerica; più tardi, affermò in un’intervista che sentiva di essere lui stesso un africano. Il realismo magico colombiano ha un forte background africano e molte comunanze con la letteratura orale. Leggendo Jorge Amado, da ragazzino, ho scoperto poi di essere anche un po’ brasiliano. Immergersi in questi autori, significa ritrovarsi tra scrittori africani: in loro, infatti, rintraccio la stessa mitologia popolare. Il realismo magico è qualcosa di quotidiano, le persone ci convivono ogni giorno, in Africa e in Sudamerica. I quotidiani in Angola riportano anche fatti che gli europei considererebbero sovrannaturali. Ricordo la storia di due fratellini che erano spariti: furono ritrovati dopo parecchio tempo sul fondo di un fiume da un pescatore, ancora vivi. Fu così che vennero strappati all’anziano dalla lunga barba bianca che li aveva rapiti e tenuti prigionieri.

Il confine tra realtà e finzione è dunque labilissimo. In apertura del suo ultimo libro, lei dichiara di essere entrato in possesso dei diari e appunti della protagonista, eppure non è un memoir...
Assolutamente no, il personaggio di Ludo è totalmente di fantasia e non esiste nessun diario, quel che narro è pura finzione. Solo il contesto della guerra d’indipendenza è realistico, ovviamente. Nelle mie opere tendo a non disegnare mai confini netti tra realtà e finzione, preferisco mischiare personaggi storici reali – anche noti – con l’artificio letterario. In genere, non mi applico a grandi ricerche storiche: entro nel mondo reale partendo da punti di vista soggettivi e personali. I miei non sono mai romanzi storici, sono qualcosa di molto più filosofico, legato alla condizione e psiche umana.

Nel romanzo, affida la narrazione a un personaggio profondamente distante dalla realtà storica dell’Angola. Perché questa scelta?
Era mia intenzione segnare un cambiamento e tracciare un’evoluzione. La protagonista Ludo parte con preconcetti anche razzisti e non sa praticamente nulla del mondo – politico, sociale, culturale – in cui si trova catapultata, ma poi, anche grazie al contatto con il ragazzino che la ritrova e si prende cura di lei, capisce la sua ristrettezza di vedute, abbraccia altri punti di vita, e impara a perdonare.

Quanto sono importanti il passato e la memoria individuale e collettiva, in un paese che ha subito colonialismo e guerra civile, per costruire un possibile futuro?
In Angola, ma anche in Mozambico, il dibattito è molto acceso tra chi sostiene che si debba dimenticare il passato e chi invece che si debba ricordare e insegnarlo anche alle nuove generazioni. Io sostengo che si debba ricordare, parlare e confrontarci su questa lunga guerra, e anche scriverne insieme. Credo sia importante non rimuovere e capire prima di dimenticare. In molti paesi africani, e particolarmente in Angola, la storia ufficiale insegnata nelle scuole a partire dall’indipendenza è pura finzione, e oggi viene sfidata e rimessa in discussione dagli storici stessi.

Qual è quindi il ruolo di uno scrittore in un paese vessato da una guerra così lunga e cruenta, afflitto dalla povertà, e che deve ancora fare i conti con il suo passato coloniale?
Scrivo perché ho veramente bisogno di farlo e ho cose da dire, ma in un paese come l’Angola una persona che fa il mio mestiere ha anche un obbligo: quello di suscitare domande, attraverso la sua letteratura, animando il dibattito pubblico. Ci sono tante persone che la guerra l’hanno vissuta e che ne affrontano tutti i giorni le conseguenze. Hanno diverse storie individuali da raccontare. Il ruolo dello scrittore è di incontrare queste persone e ascoltare le loro biografie: è importante elaborare le versioni discordanti della storia, non credo nelle verità univoche e assolute. La memoria è sempre una risorsa, io scrivo per cercare di comprendere. E la letteratura può creare una serie di finestre sul mondo.

Può descriverci la situazione attuale in Angola?
In questi ultimi tre anni ho passato molto tempo in Mozambico perché l’attuale situazione in Angola è terribile, un nuovo presidente è stato da poco eletto ma l’atmosfera del paese non è affatto democratica. Per mia sicurezza, vivo altrove e questo mi permette di continuare a scrivere avendo le mie opinioni. La mia speranza è comunque quella di poter tornare presto in Angola, dove vive il resto della mia famiglia.

Lei annovera fra i suoi interessi la musica ed è anche un deejay…
Non proprio, anche se mi piacerebbe. Ho lavorato a programmi radiofonici in Brasile e Portogallo, soprattutto A Hora das Cigarras (L’ora delle cicale, diffuso la domenica dalla stazione radio portoghese RDP Africa, ndr), contenitori dedicati alla musica e alla poesia africane, fondamentali per raccontare la storia dei nostri paesi e trasmetterne le culture.