Un appuntamento dal dottore, domande di routine, il lettino, lo stetoscopio. Un ragazzo giovanissimo lamenta una tosse persistente: il medico ausculta il suo respiro. Ma è solo una messa in scena: il ragazzo si prostituisce e il finto dottore è un suo cliente a cui piace mettere in pratica una fantasia erotica. Gli appuntamenti dal medico – veri o inscenati – scandiscono l’epopea di questo ragazzo senza nome (Félix Maritaud, che avevamo visto nel concorso dell’anno scorso in 120 battiti al minuto), il protagonista di Sauvage: l’opera prima di Camille Vidal-Naquet presentata in concorso alla Semaine de la Critique. «Puoi chiamarmi come preferisci» dice non a caso il giovane a un altro suo cliente, offrendosi come il contenitore di fantasie in base alle quali si modula di volta in volta con dolcezza e senza provare alcun ribrezzo.

Per preparare il suo film – di cui è anche sceneggiatore – il regista racconta di aver passato tre anni con un’associazione di volontari in mezzo ai «marchettari» del Bois de Boulogne di Parigi: «Volevo mostrare le vite di questi ragazzi, concretamente. Questi lavoratori ‘invisibili’, dei quali sappiamo che esistono ma ignoriamo quale sia precisamente la loro vita quotidiana».

Parigi è quasi irriconoscibile e anonima come il «selvaggio» protagonista del film, la macchina da presa resta infatti incollata solo a lui, al suo corpo e al mistero che lo avvolge, alla domanda irrisolvibile che ci pone. Selvaggio perché letteralmente indomabile: non desidera una vita più agiata, spende i soldi guadagnati in qualche dose di crack e quando deruba un cliente insieme a un amico porta via con sé solo una spillatrice per rattopparsi uno strappo nella giacca.

L’unico vero desiderio è quello nei confronti di Ahd – altro marchettaro come lui che però sfugge dal suo amore perché a differenza sua preferisce optare per la «protezione», e l’addomesticamento, di un anziano cliente che gli ha promesso di portarlo lontano – sceglie di identificare la sua vita con quella messinscena che per il protagonista dura solo l’arco di qualche ora.

La tosse però è reale: per questo continuano a tornare gli appuntamenti con i medici, quelli veri, che di volta in volta interrogano il ragazzo con le stesse domande che vorrebbe fargli chi guarda – ma senza trovare risposta. Sauvage non cerca infatti di svelare il mistero della natura del suo protagonista costruendo delle risposte a questi inevitabili interrogativi, evocando sullo schermo un passato che possa costruire un senso prestabilito – una lente con la quale leggere le vicende del film in una catena di cause e effetti.

Si affida piuttosto alla qualità «ultraterrena» – con le parole dello stesso Vidal Naquet – della vita e vitalità animalesca e innocente del suo «eroe», ragazzo di vita in un’epoca nuova e sempre meno decifrabile. Un’innocenza forse troppo insistita, fino al parallelo cristologico, ma che conferma il sincero affetto dell’autore per il suo personaggio quasi angelico in un mondo brutale.