Maurizio Landini è stato eletto da poco segretario della Cgil ed è assediato da mille impegni. Tanto più gli sono grata di avermi concesso un’intervista. Ragione di più anche per non prenderla alla lontana sul tema che mi preme.

Puoi dirmi perché avete rifiutato di partecipare allo sciopero generale dell’8 marzo?
Non abbiamo rifiutato. Al contrario, là dove le condizioni lo permettevano, nella scuola e nel pubblico impiego dove è stato dichiarato, abbiamo partecipato. Siamo convinti che uno sciopero vada preparato. Se un sindacato chiama allo sciopero e questo non riesce, è controproducente. Un punto essenziale perché non succeda che le donne si sentano escluse. Questo è stato per noi il punto dirimente su cui bisogna continuare a discutere. E comunque, ovunque si siano create le condizioni per indirlo abbiamo dato la nostra copertura sindacale.

Dal sindacato le loro rivendicazioni e la loro elaborazione non sono mai state recepite.
É un giudizio francamente ingeneroso, anche se è vero che ci sono ancora molti problemi. Proprio per questo riteniamo che vada, insieme, svolta una discussione.
Considera che nella Cgil le donne ormai dirigono diverse categorie, molte Camere del Lavoro e strutture regionali. Non c’è stata da parte della Confederazione un rifiuto nel merito, piuttosto una obiezione sul metodo: le piattaforme vanno condivise.

Da sempre la specificità del pensiero e delle pratiche femminili sono state escluse dalle forze politiche e sindacali. Appunto per questo bisogna invertire la rotta. Il tema non è abituale nella Cgil, mentre direi che è bollente e più che maturo nella società; in alcuni paesi, come la Spagna, le donne sono oramai alla testa dell’iniziativa politica nelle principali città spagnole come Madrid e Barcellona.
Il tema nella nostra organizzazione è ben presente, ma ha incontrato e incontra resistenze. Quel che mi preme ora è recuperare un ritardo che passa non solo fra uomini del sindacato e donne del sindacato ma, in parte, fra loro stesse. Molte delle nostre compagne hanno osservato come la discussione fra le donne sia plurale, e come sia difficile affrontarla, senza che ci sia una sorta di arresto alla prima divergenza. Non si può dire «o prendete tutto quel che diciamo, o non se ne parla più». Bisogna anche rivedere come si discute per finirla con la prassi delle diffidenze reciproche.

La riflessione attuale viene dagli anni Settanta del secolo scorso, non da prima e non è stata tutta facile, essa comporta molti cambiamenti da come ci pensavamo precedentemente. Per capirci bisogna stabilire un rapporto di fiducia o almeno di non sospetto.
È vero, per questo penso che bisognerebbe entrare nel merito con domande del tutto nuove: che cosa vuol dire per il sindacato, e specie per noi uomini, assumere il tema della differenza di genere?

Pensi che incontrerete difficoltà su questo tema nella vostra organizzazione?
Oggettivamente sì. Quella che abbiamo di fronte non è la costituzione di una commissione per le pari opportunità su cui si trova sempre un punto di equilibrio, ma una discussione su come affermare una concezione del mondo del tutto nuova e probabilmente più avanzata e su come cambiare i rapporti di potere e di libertà tra donne e uomini.

Un rapporto inuguale, che ha comportato nei secoli il dominio maschile sulla società: questo è il nodo della questione.
É necessario cambiare molte abitudini che investono le forme e le modalità con le quali si fa politica dentro il sindacato. Ad esempio, nei contratti nazionali, sul piano formale, i diritti sono uguali per le donne e per gli uomini. Ma la realtà è assai diversa sia per quanto riguarda il salario sia per la carriera: le donne hanno un salario inferiore e sono ostacolate nella carriera. La discussione dobbiamo aprirla prima di tutto nella testa di ognuno di noi. La cultura della differenza implica un cambiamento di fondo. È ovvio che ci siano resistenze. Tuttavia non sottovaluterei, anche se piccoli, i passi avanti faticosamente raggiunti. Abbiamo deciso di affrontare una questione, secolare e non è un caso se abbiamo scelto di affidare la responsabilità delle politiche di genere a Susanna Camusso. È lei che ha aperto la discussione e ci ha obbligati a capire che non è un problema parziale ma assolutamente generale.

Del resto, quale tema è più fondamentale per la Cgil che uno sguardo più ampio sul lavoro? Ed è su questo, come hai riconosciuto, che la discriminante sulla presenza femminile è più visibile e manifesta.
Non a caso abbiamo assunto la scelta strategica di predisporre una piattaforma per la contrattazione di genere: non ci potrà più essere una piattaforma rivendicativa, nazionale o aziendale, che non affronti questo punto.

Avrete anche un problema con la Chiesa su questo punto…
Può essere, anche se tra loro si è aperta una bella discussione. Papa Bergoglio incontra una opposizione nella sua stessa Chiesa proprio su temi scottanti come la questione ambientale, economica e sociale. A Verona ho visto il dispiegarsi di una parte retriva della cultura e della gerarchia cattolica appoggiarsi sulla fazione più oscurantista, antidemocratica, illiberale e fascista della politica e dei movimenti sociali italiani: un amalgama nero clericofascista, come dice lo storico Melloni. A questo schieramento neo-con bisogna opporsi culturalmente, socialmente, politicamente, spritualmente.

Oggi come oggi Bergoglio è il personaggio che su alcuni di questi punti si esprime più chiaramente.
Sono d’accordo. La sua concezione prefigura un’idea della Chiesa che a me pare diversa dal passato. Il cambiamento più forte è proprio sul lavoro. E noi dobbiamo porci il problema del rapporto con il mondo cattolico che, per altro, rivolge lo sguardo dalla nostra parte e cerca un dialogo. Il 16 maggio andrò all’Università Gregoriana per un incontro con le associazioni di volontariato della Chiesa. Hanno un accordo con la Flai (la categoria dell’agroindustria) per fornire derrate alimentari alle parrocchie e alle famiglie in difficoltà. Vorrei che andassimo oltre al gesto caritatevole perché manifestamente c’è una discussione possibile fra i questi due mondi.

Era stato Giovanni XXIII ad imprimere una svolta ma poi con Karol Wojtyla la Chiesa è tornata indietro. Del resto un arretramento alla fine degli anni ’70 c’è stato anche sul terreno della politica.
È certo che in quegli anni c’è stato un diverso orientamento in tutte le sinistre del nostro continente.

E in Italia Berlinguer apre al tema del compromesso storico che certo alla sinistra non ha portato nulla. A questo proposito, andrebbe rivisitato il contributo di Trentin, che è rimasto, mi sembra, piuttosto solitario di fatto sul sindacato dei consigli.
Stiamo pensando ad alcuni appuntamenti che provino ad affrontare questo tema. Per esempio la Fondazione Sabattini sta preparando un’iniziativa su Bruno Trentin, anche sul suo rapporto con il mondo cattolico. È una ricerca che non abbiamo mai svolto.

Questo riguarda anche la formazione dei giovani. Nell’ascoltare i ragazzi della Rete della conoscenza mi ha colpito anche come essi, impegnati su molti aspetti, si ritengano svincolati da quella che chiamano la “cultura della fabbrica” rispetto alla quale, anche nelle infelicissime condizioni dei loro lavori e lavoretti, si ritengono più liberi.
Però la domanda della libertà nel lavoro è importante perché è anche da questa che deve tornare a farsi strada un’idea di sindacato. Per la verità la sinistra storicamente non ha mai messo in discussione il modello dell’organizzazione del lavoro: in Urss c’era il taylorismo come in Cina. Quel modello di produzione non mai è stato davvero messo in discussione. Nella Cgil la questione si sta riaprendo cercando di rimettere su basi concrete la stessa autonomia sindacale, sulla quale dovremmo puntare di più. Sia dalle imprese che dalla politica. Per quanto riguarda la domanda che viene dai giovani con la recente manifestazione sul clima, si tratta di un radicalismo molto più forte di quello che il sindacato o la politica abbia avanzato finora. Lo fanno senza che vi sia una spinta ideologica alle spalle, ma proprio per questo per la radicalità della critica al modello di produzione capitalista la loro azione è così dirompente. Resta da vedere se saremo capaci di rispondervi. Oggi il tema della libertà nel lavoro è quello a cui dobbiamo prestare attenzione. Non penso tanto alle persone, quanto ai processi in atto. Quando avevo finito di parlare alla manifestazione del 9 febbraio, sotto il palco mi hanno chiesto un incontro 15 rider. Lo sciopero dei driver che ha bloccato Amazon in Lombardia – cosa non da poco – era stato organizzato da loro insieme al sindacato dei trasporti. Segnali importanti che non vanno lasciati cadere. A Malpensa, 19 mila dipendenti con contratti tra i più disparati, dai piloti agli addetti alle pulizie senza i quali l’aeroporto non funziona, abbiamo aperto una Camera del Lavoro. Un modo per dare concretezza alla confederalità e alla contrattazione inclusiva. La stessa cosa dovremmo farla nei centri commerciali, nei grandi ospedali e in tanti altri luoghi di lavoro dove ci sono contratti e condizioni diverse, dove i lavoratori vivono in qualche modo la stessa condizione. Il sindacato è ancora strutturati come cinquant’anni fa, quando le categorie erano formate in un modo assai diverso. Adesso i perimetri non sono più gli stessi e anche noi dobbiamo pensare a come cambiare.

La fabbrica che ho conosciuto io da ragazza a Milano costringeva e insieme offriva però anche una unità di luoghi e di tempi che oggi la manodopera industriale non conosce più.
Il mondo del lavoro è molto diviso. Sono decine le forme contrattuali e ormai centinaia i contratti. Tra questi molti «pirata» firmati da sindacati di comodo senza alcuna rappresentanza reale. Abbiamo avviato una discussione su come arrivare a una legge sulla rappresentanza che sia di sostegno alla contrattazione collettiva. Il lavoro poi non è fatto solo di salario e di diritti ma anche dalla sua qualità. Abbiamo raccolto oltre un milione e mezzo di firme e presentato al Parlamento la «Carta dei diritti universali del lavoro» che ha l’ambizione non di tornare al vecchio Statuto, ma di ridisegnare tutta la giurisprudenza del lavoro e i diritti del singolo lavoratore. Andando un po’ più avanti nel ragionamento si arriva al cosa produci e a come lo produci. E riapre anche la discussione sugli orari di vita e di lavoro.

Che riguarda anche le donne.
Certamente parlare dei turni non è la stessa cosa per un uomo o per una donna. Far diventare le differenze un elemento che unisce invece che dividere sarebbe un bel cambiamento. Vediamo se ci riusciremo.

Una obiezione che le donne più intelligenti ti possono fare è che qui il sindacato si scontra con problemi di civiltà, niente di meno: la concezione maschile del mondo è diversa da quella delle donne.
Infatti, Susanna Camusso chiude ormai tutti i suoi interventi dicendo: «Il futuro è donna, fatevene una ragione. Gli uomini non sono stati capaci di trasformare le cose».

Sono duemila anni che gli uomini sono formati in un certo modo e li hanno formati così le madri e non solo i padri. È un bel lavoro quello che hai davanti.
Sicuramente. Per fortuna la Cgil è una grande e bella organizzazione che non ti lascia solo.

C’è una grande diffidenza verso la qualità della politica odierna.
E ci sono buone ragioni. Sono però fiducioso. La nostra manifestazione del 9 febbraio che ha riempito piazza San Giovanni a Roma e gli scioperi degli edili e dei trasporti, quella delle donne che si è tenuta a Verona contro un convegno sostenuto dalla Lega e dalla destra più integralista e oscurantista, la manifestazione di Milano contro il razzismo, quella di Padova per ricordare le vittime innocenti di mafia e la decisiva protesta degli studenti in cui c’è stata da parte loro una presa di azione diretta, non mediata, sono segnali di speranza. Senza voler enfatizzare, nella protesta dei ragazzi colpiva molto la mancanza di paura in contrapposizione a Salvini che può contare sulla paura di noi adulti.

C’è anche il problema del contatto tra Salvini e l’Europa di destra. Ma capisco che non puoi aprire tutte le porte in una sola volta.
No! Meglio cercare di fare una cosa alla volta e, possibilmente, farla bene.