Sembra di respirare la polvere nelle scene della riserva indiana di Land, la stessa polvere che si alza in Afghanistan, così come abbiamo imparato a vedere in tanti film contemporanei. I due luoghi così lontani sono strettamente collegati dalla morte del giovane capitano indiano morto nello scenario di guerra. Una lettera dal comando annuncia la sua morte ai familiari, che forse neanche potranno avere un indennizzo adeguato, la sua morte non è avvenuta in combattimento, comunicano.

L’AZIONE avvenuta in terre lontane si percepisce estranea alle desolanti immagini di una vita senza via d’uscita, dove solo l’alcool rende sopportabile l’inerzia e scandisce il passare del tempo, sempre che si riesca a procurarsi qualche lattina di birra, poiché è merce proibita all’interno della riserva. La terra che un cartello impolverato indica come «This is an indian country» è abitato da nativi dall’espressione impenetrabile, individui seri e silenziosi proprio come si suggerisce nei western, ma qui la cinepresa indugia su ogni piega del volto alla ricerca di racconti antichi, sopraffazioni, vite senza speranza, volti ripresi nel vano di un pick up, nel riquadro di una porta.

Un fratello perso nel delirio alcolico, che vaneggia di cacciatori di indiani scuoiati per farne burattini con l’aiuto di un prete, l’altro fratello che cerca di risolvere i problemi confrontandosi come può con i «bianchi», con criteri a loro poco comprensibili, se si tratta di denaro, di onore, di giustizia.
Le due comunità sono contrapposte, i bianchi hanno lo spaccio degli alcolici, i nativi devono lottare per disintossicarsi dall’alcool e i conflitti che sorgono sono un accenno doloroso a quelli secolari e mai risolti nel paese, e ormai sono lontane anche le dimostrazioni ufficiali di Marlon Brando e l’impegno di Kevin Costner (di origini lakota): in Land troviamo un mondo senza via d’uscita.

Ci sono scene nel film che sintetizzano quanto lontani siano i diversi riferimenti, quanto difficile l’allineamento dei tempi: distillato di antiche usanze quello dei nativi, sbrigativo e indirizzato al guadagno quello degli altri che sfruttano la situazione. Risalta ancora di più lo scenario ricordando quanto opposta sia la situazione di altre diverse riserve (ora si parla del quaranta per cento), quelle che fanno affari e gestiscono i Casinò controllando il gioco d’azzardo.

IL REGISTA Babak Jalali di origini iraniane, cresciuto a Londra, con esperienze anche a Parigi e a Roma ha scelto Tijuana come location, proprio vicino al muro con il Messico e suggerisce altri luoghi di confine, uno scenario anche personale. Racconta questa terra di frontiera come quella in cui lui è nato, nel nord dell’Iran, trovando similitudini tra i diversi tipi di isolamento, di chi mai ha lasciato la sua campagna nella sua vita. Nel suo film d’esordio Frontier Blues raccontava l’isolamento che segnava l’Iran dal Turkmenistan (e poi in Radio Dreams le rock band, in Land interessanti sono i flash sonori ). Il film è stato presentato nella sezione Panorama al festival di Berlino del 2018, da un progetto sviluppato dal Torino Film Lab (con Mibact e Rai Cinema).