Si è cominciato a parlare diffusamente di land grabbing, l’accaparramento delle terre, dal 2011, anno del Social Forum Mondiale di Dakar. In quei giorni di febbraio i movimenti contadini senegalesi sfilavano accompagnati dallo slogan «Touche pas a ma terre» (non toccare la mia terra).

Qualche mese più tardi, a maggio, l’International Land Coalition, che raggruppa organizzazioni della società civile, contadini, agenzie dell’Onu e centri di ricerca, nella Dichiarazione di Tirana si schierava contro il fenomeno dell’accaparramento delle terre, definendolo come: acquisizione o concessione di terre in violazione dei diritti umani, senza consultazione e consenso delle popolazioni, in assenza di valutazione dell’impatto sociale economico e ambientale, non trasparente e non democratica.

Il fenomeno ha molto in comune con il colonialismo vecchio stile e viene associato all’inizio della crisi economica globale, con la crescita dei prezzi delle materie prime agricole e l’acuirsi della speculazione sul cibo. Non sono più gli Stati, ma le compagnie pubbliche e private, le élite politiche e i fondi pensione ad accordarsi direttamente con i governi per appezzamenti di ogni grandezza, ricchi di fonti d’acqua. I contratti sono spesso segreti e prevedono la concessione di ettari per un periodo che va dai 30 ai 99 anni. A volte sono gli stessi contadini a cedere, in cambio di investimenti, le loro terre.

Oggi come ieri vengono imposte monocolture. In epoca coloniale erano cacao, caffè e canna da zucchero, oggi a questi prodotti si affiancano soia, palma da olio e mais. I colonizzatori di ieri volevano il controllo delle materie prime, gli investitori di oggi cercano l’assicurazione di prodotti a basso costo e un bene rifugio. Solo le compagnie nazionali, straniere e transnazionali arraffano terre? Ci sono le banche, i fondi d’investimento e persino le università.

Nel 2011 gli studenti di Harvard denunciarono l’università americana per aver affittato terre africane. Una delle province del Canada ha recentemente vietato ai fondi pensione l’acquisto di terra nel Paese. Nel 2013 il Canada Pension Plan comprò più di 46 mila ettari per coltivare grano. L’Arabia Saudita e la Cina sollecitano le loro imprese ad investire in terre. Lo sceicco saudita e magnate del petrolio al-Moudi amministra migliaia di ettari nella regione etiope di Gambella, una delle più fertili e più povere. Coltiva riso e cotone. Gli stretti rapporti tra lo sceicco e le aziende da cui si rifornisce H&M hanno costretto la firma di vestiti svedese a garantire l’origine della materia prima. La Cina ha cominciato a consumare carne con la stessa velocità con cui consuma il suo territorio, ora è alla ricerca di soia per sfamare gli animali e di terre per coltivare riso. Cambogia, Filippine, Birmania, e non solo, si sono trasformate nella nuova campagna cinese, che arriva fino all’Africa Subsahariana.

Alle nostre latitudini l’accaparramento è spinto anche dagli incentivi per la conversione, nei trasporti, dell’energia tradizionale in energia “pulita”.

L’Ue ha fissato un tetto del 6% per i biocombustibili ma rischia di non frenare il cambio di destinazione d’uso dei terreni agricoli. Le produzioni di palma da olio, mais e canna da zucchero prendono il posto di quelle alimentari, in Europa ma soprattutto in Africa e Asia. I contadini di Liberia, Costa d’Avorio, Sierra Leone e Cameroun si sono uniti per contrastare il francese Bolloré Group, che coltiva palma da olio in Africa.

Nel 2014 in Brasile, durante i mondiali di calcio, è andata in scena la clamorosa protesta degli indios Guaranì, contro la riduzione del loro territorio ancestrale, occupato dalle piantagioni di canna da zucchero, per la produzione di etanolo. La terra viene arraffata anche per realizzare grandi opere, ne sono un esempio le dighe sul fiume Congo e sul fiume Omo in Etiopia.

795 milioni è un numero enorme: sono le persone che ancora oggi soffrono la fame, secondo la Fao. I movimenti contadini come La Via Campesina e le ong come Grain dicono che gli ettari accaparrati hanno superato i 200 milioni. La Banca Mondiale nel 2011 aveva già documentato, tra il 2008 e il 2010, accordi per 60 milioni di ettari. Nel rapporto pubblicato a maggio la Fao non accenna al fenomeno del land grabbing tra le cause dell’insicurezza alimentare, eppure sovrapponendo la mappa della fame a quella del land grabbing molti paesi malnutriti sono anche oggetto di accaparramento.

Le terre acquistate o affittate prendono il posto dei campi coltivati dai piccoli contadini o dei pascoli. Anche se questo non implica per forza la fame, aumenta la dipendenza e favorisce l’abbandono delle campagne.

Nel linguaggio comune di investitori e governi le terre concesse sono marginali. La verità è che non esistono terre che non siano una risorsa economica per la comunità locale. Gli spostamenti forzati e gli espropri vengono giustificati con l’arrivo di investimenti per migliorare agricoltura e condizioni di vita. La costruzione di scuole, ospedali e strade e la garanzia di posti di lavoro, sono le promesse ricorrenti. Le infrastrutture rimangono sulla carta e i posti di lavoro sono temporanei e malpagati. A garantire l’accesso alla terra ai privati ci pensano le leggi fondiarie.

Vengono invocate clausole d’interesse nazionale per far entrare stranieri in sistemi in cui la terra è dello Stato. E’ il caso del Senegal, dove 20 mila ettari di riserva agro-forestale della Regione di Saint Louis sono stati ceduti alla società Senhuile SA, posseduta dall’italiano Tampieri Financial Group. L’azienda ha cambiato coltura, passando dai girasoli alle arachidi, ha già licenziato molti lavoratori e ha limitato i movimenti dei pastori Peul.

Un’istituzione internazionale come la Banca Mondiale è accusata di favorire l’accaparramento delle terre, per aver spinto i governi a modificare le leggi terriere in favore degli investimenti stranieri.

Adesso, a differenza del 2011, il fenomeno del land grabbing è sulla bocca di tutti.

La Fao ha varato le linee guida volontarie per gli investimenti responsabili in agricoltura, invitando paesi e corporation a rispettare gli interessi di tutte le parti coinvolte, anche dei contadini. Un passo avanti nel riconoscimento, ma non verso la soluzione del problema.

Continuando a questi ritmi domani avremo meno terra, la proprietà sarà sempre più concentrata, ai contadini rimarranno i campi meno fertili, le campagne si svuoteranno e saremo tutti più dipendenti dai colossi dell’agroalimentare.