Dopo il suo decennale «apprendistato» in quel palinsesto della storia del giardino inglese del Settecento che è Stowe – dove opererà e armonizzerà talenti innovatori del tenore di William Kent e già di John Bridgeman – il giardiniere inglese per eccellenza Lancelot Brown interverrà per oltre trent’anni, dalla metà del secolo fino alla morte, avvenuta nel 1783, nelle tenute delle maggiori famiglie dell’isola, ridisegnandone la fisionomia. Trasponendo l’ispirazione di una idealizzata natura «migliorata» nei giardini, e volgendo al naturale il loro impianto formale, ne farà al contempo – in un reciproco gioco di specchi – l’epitome stessa del paesaggio inglese.

Il tutto anche per la vastità della scala su cui Lancelot Brown opera, intervenendo su oltre centocinquanta delle maggiori proprietà del paese con un’impronta che, ancora oggi, permea molti tra i superstiti grandi giardini inglesi. Un agire eminentemente pratico il suo, dove si dispiega quella ubiquitaria laboriosità che, oltre la flebile traccia degli stretti rapporti che intrattenne con molte figure di spicco del secolo (interessati, spesso competenti proprietari), resta tratto caratterizzante della sua biografia.

Insomma, le sue umane vicissitudini poco si prestano a fornire quegli spunti pittoreschi per il soggetto di una improbabile fiction tv che, nella sorniona lettura scenica cui Masolino d’Amico ricorre per approntarne il ritratto (Il giardiniere inglese, Skira 2013, pp. 85, euro 13), il deuteragonista giovanottone americano, un tempo frequentatore di Cambridge e dei corsi di canottaggio con successo, tenta di estorcere al suo ex professore di poesia e teatro, specialista del Settecento e alter ego dell’autore.

Una conversazione monologo dove d’Amico infittisce la trama di divagazioni e citazioni, fin dalla prima, non a caso teatrale – da una commedia di David Garrick (che realmente consulterà Brown su come migliorare il suo nuovo giardino) ambientata nell’oltremondo dell’antichità. Qui si reclamerà di adattare anche il disegno troppo rettilineo dello Stige alla serpentina in voga, ammiccando al pubblico riguardo le potenzialità di migliorare anche lì il paesaggio. Un divagare dove il rilievo dell’opera di Brown emerge come snodo per ripercorrere sul registro della storia culturale e dei risvolti sociali e del gusto i fili della vicenda della nascita del giardino moderno. In andirivieni, si badi.

Dapprima a ritroso, dall’innesco di una sensibilità nuova per la natura, valorizzata dalla dimensione speculativa delle riflessioni di un Addison o di Shaftesbury, come dalle suggestioni ispirate dalla pittura italiana e francese di paesaggio e dal Grand tour in Italia: si torna, via Palladio, alla Roma antica e a una classicità delle rovine da trasporre idealizzata nel culto anticheggiante di un pantheon attualizzato, dei grandi uomini interpreti di un nuovo modello di equilibrio e di una nuova identità britannica parlamentarizzata che si oppone all’assolutismo. Certo, nel solco di un severo processo di trasformazione dell’uso delle terre che, alla valorizzazione estetica, fa corrispondere «migliorie» e accorpamenti delle proprietà. Fino al capitolo Brown, che di quelle migliorie e potenzialità di valorizzazione estetica nei paesaggi che gli sono sottoposti sa prevedere gli sviluppi (da ciò il suo soprannome «Capability»), convincendo i proprietari a investimenti spesso ingenti e di lunga durata.

Capability Brown è un tecnico esperto e profondo, aggiornato conoscitore della vegetazione; si distacca dall’ideale anticheggiante e monumentale e, declinando plasticamente un lessico eminentemente naturale, incorpora nel progetto il paesaggio circostante, piuttosto allentandone le disarmonie, senza ancora troppo anticipare sistemazioni via più scenografiche. Con Capability, ma sempre in andirivieni di precedenti e sviluppi, d’Amico percorre, nei suoi luoghi e nelle vicende fondative, il secolo e il paesaggio dell’Inghilterra dei giardini. Introducendo in interconnessioni serrate personaggi, contesti, temi.

Libertà, quindi, dalle costrizioni dell’assialità e della simmetria del costruito, per un’imitazione della multiforme varietà della natura, del paesaggio che, visivamente rimosso ogni perimetro esterno, si traguarda in continuità. Via la topiaria indrappellata, a favore dell’uso di alberi e cespugli liberi di crescere, pur se opportunamente disposti a contrasto, in gruppi a chiudere o enfatizzare vedute, a creare giochi di luci e ombre, studiati cromatismi col trascorrere delle stagioni. Via i limiti, a favore degli elementi vegetali che, irregolari, avanzano fino a lambire sentieri tortuosi, tali da indurre moltiplicazioni di scene differenti (non più un normativo sguardo sinottico) e che nel percorso avvicendano nascondimento, sorpresa, scoperta. Come, tra tutti, nelle suggestioni dello scorrere libero delle acque – non più canali e fontane – di fiumi e laghi sinuosi.

Elementi questi che spesso sono interamente ridisegnati e scavati ex novo, o spostati. Come pure di peso si spostano alberi e dossi, si spianano colline e, se serve per ottenere una scena «interamente naturale», si trasferiscono perfino interi villaggi. Con il paradosso dell’enorme impatto e dispendio necessario per ottenere un tale effetto di naturalezza, senza che sia percepibile l’artificio sotteso. Non sarà un caso se l’egemonia culturale del gusto formalizzata nel dettato di Brown, oltreché attirarsi ciclicamente le critiche di distruttore di giardini formali, come per altro quelle di scarsa immaginazione da William Chambers o, poi, di un’eccessiva anestetizzazione del selvaggio, sarà stigmatizzata per la sua pretesa di dominio e manipolazione della natura.

Nei famosi versi del terzo libro dedicato al giardino della sua opera di moralista, The Task, William Cowper criticherà, con Capability, la sua professione e la sua brama di «migliorie», che avrebbero spogliato la natura e viziato il carattere inglese: evocando un Brown, «mago onnipotente» che, semplicemente parlando, muta d’assetto valli, colline, laghi…