Gli stanchi giornali d’agosto continuano a definire Trump «l’uomo più potente del mondo» ma il 45° presidente Usa somiglia sempre più a uno di quegli anziani un po’ fuori di testa che nelle famiglie contadine venivano confinati in soffitta e pregati di non scendere in cucina quando c’erano ospiti.

Per il momento Trump rimane libero di muoversi alla Casa Bianca, ma non è chiaro se qualcuno gli badi ancora.

Per esempio, qualche settimana fa, ha bombardato di ammonimenti e minacce il capo dei senatori repubblicani Mitch McConnell perché facesse votare la cancellazione dell’odiata riforma sanitaria di Obama, senza che peraltro si capisse con cosa il presidente volesse sostituirla. Nonostante gli sforzi, la maggioranza repubblicana è rimasta divisa al suo interno e nella votazione decisiva il progetto è stato respinto. Difficilmente verrà resuscitato in tempi brevi.

In luglio, Trump ha lanciato una raffica di tweet annunciando che ai transessuali non sarebbe più stato permesso di servire nelle forze armate. Poco dopo il capo di stato maggiore, il generale Joseph Dunford, spiegava ai giornalisti che un tweet non era un ordine formale e che solo dopo l’arrivo di istruzioni in buona e dovuta forma il segretario alla Difesa avrebbe emanato nuove linee guida sul tema. È passato un mese ma nulla è accaduto.

Qualche giorno fa, Trump ha minacciato di scatenare un uragano di fuoco sulla Corea del Nord dopo i test di missili balistici realizzati dal regime di Pyongyang. Il segretario di Stato Rex Tillerson e quello alla Difesa James Mattis hanno subito precisato che «l’opzione militare» rimane una possibilità ma che nulla è cambiato nella posizione degli Stati uniti. A questa smentita si è aggiunta la beffa del fedele consigliere Steve Bannon che, due giorni fa, avendo capito che il suo tempo alla Casa Bianca era scaduto, si è permesso di ironizzare sugli scenari di guerra evocati dal presidente spiegando che nessuno ha ancora chiarito come lanciare un’operazione militare in Corea senza «provocare dieci milioni di morti a Seul», capitale della Corea del Sud, nella prima mezz’ora del conflitto.

Dopo le dichiarazioni di Trump, confuse ma concilianti verso i neonazisti che avevano invaso Charlottesville, i leader del mondo economico hanno cominciato a prendere le distanze, costringendo la Casa bianca a sciogliere i comitati di businessmen che in teoria avrebbero dovuto cooperare con il presidente nella rinascita economica dell’America.

Come i dieci piccoli indiani di Agatha Christie nel romanzo E poi non rimase nessuno, i collaboratori di Trump scompaiono uno dopo l’altro, mentre i superstiti si chiedono chi sarà il prossimo. Dopo il generale Michael Flynn in febbraio c’è stata un’emorragia di consiglieri di alto livello, tra cui il capo dell’ufficio stampa Sean Spicer, il suo successore Anthony Scaramucci, il capo di gabinetto Reince Priebus. Bizzarramente, però, il ministro ideologicamente più vicino a Trump, il politico repubblicano che per primo l’aveva sostenuto nella sua avventura politica, Jeff Sessions, è stato attaccato e umiliato pubblicamente dal presidente, ma non rimosso dal suo incarico, come pure sarebbe costituzionalmente possibile.

Gli esempi si potrebbero moltiplicare ma lo spazio impone di fermarci qui: Trump, lungi dall’essere un dittatore, è un’anatra zoppa, un presidente imprevedibile e pericoloso ma isolato nelle istituzioni. Questa situazione è maturata in fretta, in appena sette mesi, ma era nelle cose: il palazzinaro di New York si è fatto eleggere attaccando ogni giorno l’establishment di Washington, il partito repubblicano che in teoria rappresentava, la stampa, il mondo intero. Logico, quindi, che la classe politica della capitale, anche quella legata a lui da un matrimonio d’interessi, prima lo guardasse con diffidenza, poi cominciasse a manifestare fastidio, e ora sembra orientata all’indifferenza.

Questo potrebbe anche essere un ostacolo superabile se Trump fosse un vero leader populista, capace di usare la pressione dei sostenitori per imporre il suo programma politico, ma naturalmente non è così: Trump è un narcisista le cui promesse mirabolanti in campagna elettorale sono state dimenticate da tempo. Del muro al confine con il Messico non si sente più parlare, il miliardo di dollari da investire nelle infrastrutture è dimenticato e la guerra commerciale con la Cina non è mai iniziata. Le priorità del Congresso in autunno sembrano essere la riforma fiscale e il bilancio, ma in nessuno dei due casi Trump sembra avere una posizione dettagliata.

Personalmente, Trump gode ancora di un consenso minoritario ma solido: ben presto, però, anche i suoi sostenitori più fedeli inizieranno a chiedersi perché nulla di ciò di cui aveva parlato nella campagna sia stato realizzato.