Non usa toni da crociata l’arcivescovo di Milano Angelo Scola, eppure è preoccupato perché la chiesa ambrosiana, pur potendo contare “su una realtà popolare viva che ha profonde radici cristiane”, riesce ad essere poco incisiva nei confronti di un rischio chiamato “ateismo anonimo”. Sarebbero tutte quelle persone che nonostante frequentino la chiesa vivono la quotidianità “come se Dio non esistesse”. Insomma, l’erede del “posto” di Carlo Maria Martini e di Dionigi Tettamanzi – due grandi preti molto in sintonia con i cattolici e i non cattolici di Milano – vorrebbe un gregge più militante e proprio per questo ha suonato la carica invocando una nuova evangelizzazione della città più profondamente laica d’Italia.

Il messaggio, senza fare riferimenti spiccioli alla vita politica di Palazzo Marino, è stato lanciato ieri mattina in un passaggio della lettera che ha inaugurato il nuovo anno pastorale nel corso della messa celebrata in Duomo. In Lombardia, e soprattutto a Milano, secondo il cardinale “c’è ancora un buon numero di persone che partecipa alla messa domenicale e che dà una mano seriamente all’edificazione di una vita cristiana, però il cristianesimo sta diventando culturalmente una minoranza, anche nella nostra diocesi, ed è qui che si insinua questo atteggiamento che ho chiamato ateismo anonimo, cioè un vivere pragmaticamente, non per scelta, come se Dio restasse al margine totale del nostro sguardo e come se la giornata non fosse sotto la presenza del segno di Dio”.

Angelo Scola, e sicuramente prima di lui e con ben altra efficacia papa Francesco, dunque sembra essersi accorto che “spesso l’annuncio del Vangelo e la vita delle nostre comunità appaiono astratte e lontane dal quotidiano”. Durante il messaggio più volte il cardinale si è soffermato sulla realtà milanese e sulle generazioni in età da lavoro, le più distanti dal verbo e le più angosciate – “travagliate” – dalla precarietà. Milano, secondo Scola, vive il “travaglio” di altre città europee “in cui gli uomini non riescono a valorizzare le cose buone della modernità e vivono come scheggiati, con tante schegge che non riescono a trovare unità”.

Il discorso del cardinale a questo punto, forse poggiandosi sulla forza della parola “scheggiati”, involontaria concessione alla lingua parlata che finalmente coglie nel segno, si traduce in un messaggio politico forte, perché chiunque nel vivo della carne sente che “il lavoro è essenziale, non accessorio, per la dignità dell’uomo e la piena realizzazione della sua personalità”. Come sempre, come alla sinistra non riesce più da un pezzo, spesso la chiesa ha buon gioco a collocarsi di fianco degli ultimi e degli sfruttati. Almeno nelle prediche. La situazione è “talmente drammatica”, conviene il cardinale, “da scoraggiare ogni discorso che non parta dalla denuncia e dalla protesta”. E la denuncia, questa volta, arriva direttamente dal pulpito più alto di Milano. La fame di lavoro, sottolinea Scola, può portare a sottovalutare altri aspetti, “come il rischio che si instaurino certe forme di precarietà e si sfruttamento ingiustificate, che si trascurino attenzioni per la sicurezza, che si evitino domande sulla qualità etica di ciò che si produce, che ci siano poteri incontrollati, che possono decretare il benessere o la povertà, fino alla miseria, di molti senza rendere conto a nessuno”. I mali del capitalismo spiegati in poche righe ai fedeli (e non).