Calogero Cammalleri è un ragazzone di 21 anni, sorridente e dai modi gentili. Parla l’italiano con la calma di chi si esprime in una lingua appresa, riflettendo su ogni termine. L’accento tedesco mescolato alla cadenza siciliana svelano quella che è la sua storia: nato ad Agrigento, ma cresciuto a Düsseldorf, dove i suoi genitori sono emigrati per cercare lavoro quando aveva 3 anni. Certo per Calogero la Sicilia rappresenta la terra dell’infanzia ed è il suo sguardo di bambino quello che ha dato forma alle visioni presenti in Lipadusa, viaggio fotografico sull’isola di Lampedusa. La sua storia è una piccola favola: ogni tanto torna a Palma di Montechiaro dai nonni, per qualche settimana. Lì si sente ispirato, si mette a fotografare con una piccola digitale e pubblica le foto su Flickr. È qui che lo scopre Enrico Bossan, direttore di Fabrica, il centro di ricerca sulla comunicazione del Gruppo Benetton. Decide di contattarlo e di mandarlo per un anno a Lampedusa, all’indomani del naufragio del 3 ottobre.

È così che nasce Lipadusa (Fabrica, pp.92, euro 25), libro che Calogero mostra soddisfatto, quasi incredulo del lavoro svolto. Il suo stile, tuttavia, appare già maturo. Le foto non parlano della tragedia, non si riferiscono all’emergenza continua per cui l’isola è conosciuta. È un’altra Lampedusa quella ritratta da Calogero: qui c’è tutta la sua normalità, la quotidianità di un’isola bellissima nel mezzo del Mediterraneo, abitata da pescatori, bambini, animali. E che Calogero trasfigura in immagini oniriche, in visioni in bianco e nero che poi sono i suoi stessi sogni.

La pubblicazione di questo libro è in realtà la seconda fase di un progetto con cui Fabrica ha tentato di raccontare Lampedusa dopo il dramma del naufragio. Il 3 ottobre 2013 al largo dell’isola affondò una barca che trasporta più di 500 migranti, provenienti da Eritrea (la maggior parte), Tunisia, Etiopia, Somalia, Siria, Ghana. Furono 368 i morti accertati, moltissimi i dispersi. Il clamore dell’evento accese i riflettori su Lampedusa, che diventò il simbolo di ogni tragedia dell’immigrazione. Decine di giornalisti vi si riversarono, per ripartire dopo poche settimane. La giornalista Michela Iaccarino, invece, rimase. Raccolse le testimonianze dei superstiti che con lettere, biglietti oppure con la semplicità della loro voce registrata raccontavano del naufragio, ma riportavano anche i sogni e le speranze per un futuro migliore. Tutto questo materiale diventò Sciabica, archivio digitale che prende il nome dal termine di origine araba che significa rete da pesca. «Ho pensato: tutti se ne stanno andando – ha spiegato Bossan – e c’è qualcosa che stanno perdendo. Abbiamo deciso di raccogliere le storie che gli altri non hanno raccontato…».

Questo principio dello slow journalism, l’idea cioè che rimanere a lungo nei posti permetta di produrre dei contributi originali da prospettive insolite, è anche alla base del lavoro di Calogero Cammalleri. «Ho creduto fosse importante – ha continuato Bossan – produrre una narrazione dell’isola nei momenti in cui nessuno la seguiva. A noi interessava, e anche a Calogero perché è siciliano e in Sicilia tutto questo tempo non c’era mai stato». Calogero vi rimase 9 mesi, a partire da dicembre 2013, quando i migranti furono trasferiti in altri luoghi e il Centro di accoglienza di Lampedusa venne chiuso, a seguito delle immagini trasmesse dal tg2, che documentavano le docce all’aperto con cui i migranti erano disinfestati dalla scabbia. L’isola si svuotò, l’emergenza passò. E in quel momento si riuscì a percepire la sua autenticità.

Un’isola di 6mila abitanti, più vicina all’Africa che all’Europa e che, come scrive Silvia Giralucci negli accurati testi che completano il volume, forse si sente ancora più isolata per l’abbandono che vive per la maggior parte dell’anno. Un’isola che ha continui problemi di trasporto, dove esiste un solo poliambulatorio e in cui ammalarsi è un problema, perché serve andare in centri più grandi per curarsi. È necessario spostarsi anche per partorire, assurdo paradosso se si pensa al numero enorme di bambini presenti nell’isola, più di 1200 quelli iscritti alla scuola dell’obbligo (dove si fanno i doppi turni perché gli edifici sono fatiscenti). È comprensibile, come conseguenza di tutto ciò, la diffidenza che i lampedusani nutrono verso chi arriva per pochi giorni e pensa di poter capire tutto. «All’inizio era difficile. I lampedusani non vedevano di buon occhio i giornalisti – ha raccontato Calogero Cammalleri – Ho messo da parte la macchinetta fotografica per i primi mesi. Ho dato una mano ai pescatori, lavorato con loro. Mi alzavo alle 4 di mattina, stavamo fuori per tre o quattro giorni, anche con il mare mosso…». Pian piano Calogero viene accolto, fa amicizia, conosce famiglie cui resterà legato. E si sente libero di fotografare: Lipadusa prende forma.

Domani 7 dicembre verrà inaugurata una mostra in cui saranno esposte molte delle fotografie fatte da Calogero, presso il Museo Civico di Castelbuono, in provincia di Palermo (visitabile fino a marzo). Un’altra mostra, più piccola, è stata inaugurata ad ottobre proprio a Lampedusa, presso la parrocchia di San Gerlando, un regalo che Calogero ha voluto fare alla terra che lo ha ospitato.