La zia Lela ha sempre fatto ridere tutti per i denti sporgenti e la risata da eterna ragazza. È rimasta una eterna ragazza più o meno per scelta: abbandonato sull’altare l’unico che l’ha sinceramente amata, ha successivamente tenuto amoruncoli occasionali non più di una stagione: dopo marciscono tutti, dichiara allegra a tavola davanti alla sorella con gli occhi di fuori e ai nipotini che la idolatrano, soprattutto quando li porta in macchina spingendo forte sul gas al cinema a vedere film che i genitori non avrebbero mai permesso che vedessero (e nel viaggio di ritorno insieme inventava trame per pellicole che nessuno mai girerà né vedrà ). Ha scelto un lavoro che le calza a pennello: decoratrice di interni, lei col suo gusto per le cose ricercate, di pregio, originali da vedere. Si veste con abiti usati, divenuti di moda col tempo. Ama i mercatini di provincia, dove si reca ogni fine settimana, anche a costo di postare chilometri e benzina.

La solitudine è l’ultimo dei suoi problemi, brava a trovare attività in ogni gesto quotidiano: la cura della casa, dei gatti, dei familiari. Ha a cuore i nipoti come fossero bulbi da nutrire ogni giorno con qualcosa di nuovo: nulla la esalta di più che stimolare in loro il gusto per le cose buone da mangiare, per la letteratura, per il grande cinema di una volta. I genitori dei bambini, soprattutto la madre, si sentono alleggeriti di un compito gravoso e la sorella continua a ringraziarla ogni momento, invitandola a cena nei giorni feriali, in ricorrenze private, alle feste dei bambini. La sua strada sembra segnata dritta, disegnata perfettamente con righello e pennello. Invece dietro l’angolo si affaccia il destino, pronto a mandare tutto a carte quarantotto. Una mattina di primavera, quando indossare un cappellino fiorato è un evidente intento ottimista verso la vita, sul tram che la porta al cimitero (sovente va a parlare sulla tomba della madre, deceduta da decenni), incontra un uomo gentile che la fa sedere al posto suo, senza che ce ne sia bisogno alcuno: la vettura pubblica è quasi vuota. L’imprevista cortesia di quel gesto accende ancora una volta in Lela la voglia di provare, che pensava ormai esaurita per sempre. L’uomo si chiama Ernesto ed è vedovo, si sta recando al cimitero a salutare, come ogni giorno, la moglie e la figlia decedute nell’incidente automobilistico in cui lui, al posto di guida, si è salvato.

Totalmente ossessionato dalla sua sopravvivenza – che gli appare una tale ingiustizia, una fortuna assolutamente immeritata – non riesce a darsi pace o a distrarsi nemmeno un minuto o due al giorno. È andato in pensione anticipata e spende gran parte della sua esistenza seduto accanto al marmo sotto cui le sue due donne giacciono. Compiere un gesto di gentilezza nei confronti di un altro essere umano è in quel momento, dopo anni, la prova che è ancora vivo. Ernesto si presenta a Lela con educazione e formalità, poi si dirige verso la porta di uscita perché deve scendere alla fermata che scoprono essere la stessa. L’emozione si percepisce tra le ciglia vibranti di lei mentre lo guarda per la prima volta negli occhi e nel tremolio della mano destra di lui quando sfiora quella di lei come commiato. Lela, per natura ardita, gli chiede di rivedersi. Ernesto è allibito: non ricordava più cosa fossero i sentimenti, provarli, percepirli, nominarli. Ha paura ed è attratto dalla donna.Rimane in silenzio senza lasciarle la mano liscia, piena di anelli. Lela lo tranquillizza con gli occhi. A voce gli dice: «a domani» e se ne va. La sera, al telefono con la sorella: «Mi sono innamorata dell’uomo più bello del mondo» e ognuna, dal suo capo del filo, non smette più di ridere.

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