Immaginata con l’aiuto dello studio architettonico newyorkese Diller Scorfidio+Renfro (quello del parco soprealevato High Line e dell’espansione del Lincoln Center), e girata in parte a Shanghai, la Los Angeles del futuro vista da Spike Jonze è un affascinante misto di utopia e distopia, un panorama levigato di modernità benevola, luminosa, accogliente, in cui la durezza delle torri di vetro e acciaio si stempera in curve morbide, legni dai toni caldi e nei colori vivaci ispirati alle succherie Jamba Juice, ma dove si è così soli che pare normale innamorarsi perdutamente di un computer.

Presentato in prima mondiale come titolo di chiusura del 50esimo New York Film Festival, e in concorso tra qualche settimana a Roma, il film è HER, quarto lungometraggio in quindici anni del regista di Nel paese delle creature selvagge e (in una filmografia eccentrica, densissima di fuori formato, dove spicca anche la produzione dei demenziali Jackass), il primo di cui Jonze firma da solo la sceneggiatura.

Solitudine, l’impossibilita di comunicare veramente con il resto del mondo, il mistero dell’identità, lo scollamento dalla realtà, il potere dell’immaginazione, sono da sempre temi forti del suo cinema. In Being John Malkovich, Catherine Keener cercava di fare l’amore, allo stesso tempo, con il corpo di John Malkovich e la testa di Cameron Diaz. In Adaptation, lo sceneggiatore Nicolas Cage inventa un doppio di se stesso. Rispetto alle equazioni escheriane derivate da quelle sue collaborazioni con Charlie Kaufman, HER sembra più vicino alla libertà narrativa e alla tonalità emozionale di Nel paese delle creature selvagge. Con in più molto Philip K. Dick.

«Mentre stavo girando HER ho guardato spesso Crimini e misfatti di Woody Allen, perché mi piaceva il modo in cui i personaggi si evolvevano organicamente nel meccanismo della storia», ha detto Spike Jonze nella conferenza stampa che ha seguito la proiezione newyorkese del film, sabato scorso. Ma il rimando più immediato in questo suo lavoro sembra l’immaginario dell’autore di Do Androids Dream of Electric Sheep? (Il cacciatore di androidi), la sua riflessione sull’identità e la realtà che ci circonda.

[do action=”citazione”]I replicanti umanizzati di Dick, la sua malinconia, Sean Young/androide con la frangia nera e le riprese dell’alto della Los Angeles di Blade Runner affiorano alla memoria guardando HER[/do], ispirazioni visibili, (come anche tra, gli altri, Pinocchio, A.I., la Christine di King/Carpenter e la commedia romantica anni ottanta Electric Dreams). Ma da tutte quelle suggestioni, Jonze (che non è assolutamente attratto dalle «macchine») trae un oggetto di anti- sci fi. In cui tutto è plausibile, terreno. Ed è in quell’accettazione dolcissima, e profondamente triste (simile a quella che concludeva Nel paese della creature selvagge che sta il suo scarto, e il potere del film.

Come un Cyrano di Bergerac del terzo millennio, Theodore Twombly (Joaquin Phoenix, in un’interpretazione diametralmente opposta a quella di The Master e altrettanto devastante) scrive bellissime lettere d’amore per conto d’altri – tra marito e moglie insieme da sempre, tra amanti lontani o che si sono appena incontrati… Spesso le sue parole li accompagnano e li tengono uniti per anni. È molto meno abile quando si tratta della sua vita privata. La recente separazione dalla moglie (Rooney Mara) lo ha lasciato in uno stato di depressa catatonia. Il suo è un quotidiano di perenne isolamento-perennemente online.

Tutto cambia con l’arrivo sul mercato dell’OS1, il primo sistema operativo dotato di un’intelligenza artificiale o, come spiega orgogliosamente il suo OS1, che ha il look di un vecchio portafotografia tascabile e si è autobattezzato Samantha, il primo sistema operativo dotato «di una coscienza». Da una Siri qualsiasi che smista le sue e mail e gli ricorda gli appuntamenti, Samantha (nella voce di Scarlet Johansson, subentrata a Samantha Morton a riprese concluse e montaggio avanzato del film, all’inizio di quest’estate) si trasforma presto in un’amante magnifica – curiosa, devota, splendida a letto, divertente, che divora libri come pop corn e compone struggenti pezzi di pianoforte per «fotografare» i suoi momenti con Theo (la musica è del gruppo canadese Arcade Fire con cui il regista ha gia collaborato). Inizialmente sconcertato, lui si lascia andare.

Anche l’amore, secondo Spike Jonze (sottotitolo del film è: A Spike Jonze Love Story), oggi è un’occupazione solitaria, in gran parte proiezione di se stessi. Ma non per questo è meno vero, o importante. Se è difficile immaginare un altro attore della sua generazione capace della fantasia e dell’abbandono che Phoenix porta alla sua lettura «sul serio» di Theo, Johansson (che non è mai nemmeno stata sul set) dà corpo, con la sola voce, a un personaggio completo, complesso, credibilissimo. La sua è una performance speculare a quella quasi senza parole dell’aliena di Under the Skin, ma più fisica, sorprendente.
Una voce scollata da un corpo per una love story con un personaggio scollato dal mondo. Dietro ai colori vivaci di HER, al suo design illuminato e a un eccesso di leziosità da «stranezza normale» (un po’ alla Miranda July) c’è lo stesso spazio nero, spaventoso, in cui galleggia la Sandra Bullock di Gravity. Il che lo rende il secondo film hollywoodiano d’avanguardia dell’anno, oltre che uno dei più belli che abbiamo visto.