Silvia Vizzardelli: «Attenzione a non confondere l’amore con la dipendenza, attenzione a non fare scivolare il senso materno nel plus-materno, attenzione a non degradare il legame nell’attaccamento! Da più parti ci arrivano questi ammonimenti, veri e propri distillati di saggezza, poggianti sul senso della medietà, della moderazione, del buon posizionamento tra gli estremi. A me giungono come paradossi logici al servizio del presunto buon temperamento. E fanno male. Se all’amore sottraiamo la dipendenza, perdiamo l’opportunità di sentirne la natura.

Abbiamo sacrificato l’amore al politically correct. Se al materno togliamo la dedizione e la cura indiscriminata smarriamo tutto ciò che di proprio alberga nella maternità. Ho l’impressione che finché ci si rifiuta di vedere, senza orrore né scandalo, il senso di dipendenza e di eccezione che l’amore porta con sé e si insiste, invece, sulla “salutare” differenza tra amore e dipendenza, si perde la possibilità di avvicinare la gioia e il dramma di chi vive la deriva distruttivo-costruttiva dell’amore. Le parole e i concetti hanno un ethos – un carattere, una identità – che, come accade per il volto in Levinas, non comincia da nessuna parte se non in loro stessi.

Sintonizzare il nostro sguardo col punto di intensità dell’amore richiede, certo, coraggio, fidatezza, tolleranza dell’angoscia, ma ci assicura un premio di verità: quello di convergere sul fatto e non sull’ideale. L’amore è vischioso. Occorre riconoscerlo, se non vogliamo trasformarlo in un generico senso della vita. Amare non significa semplicemente essere vivi, condividere il palpito dell’essere, donarsi nell’apertura bonificata di uno zampillo vitale. Per esprimere questo slancio abbiamo già una parola che è “vita”. “Amore” è un’altra parola.

La filosofia novecentesca e, in particolare, la vituperata “decostruzione”, ci ha insegnato a non gettare il male, la violenza, la morte oltre la soglia, trattenendo al di qua la “purezza” dell’amore. La psicoanalisi ha dato risonanza a questa intuizione».

Sarantis Thanopulos: «Confondiamo l’amore con la dipendenza perché confondiamo desiderio e bisogno, etica e convenzione morale (il “politically correct” ne è la forma più ingannevole e fuorviante). Sul piano del desiderio la dipendenza reciproca con gli altri, fondata sulla parità, è costitutiva del nostro modo di essere nel mondo (fuoriuscendo da sé verso l’alterità).

Sul piano del bisogno dissociato dal desiderio le relazioni sono impari e creano dipendenze unilaterali. Il plus-materno, invece, mi sembra un eccesso di devozione che colma con la cura dei bisogni materiali, dove madre e figlio/a sono impari, un vuoto nella relazione affettiva/erotica paritaria tra di loro. La maternità soffre la diffusione di legami indifferenti, in cui, nel nome della libertà, ci si guarda bene da lasciarsi andare.

L’amore è un movimento di costruzione e di decostruzione. È indissociabile dall’odio, ma l’odio di per sé non è distruttivo, è conservativo. C’è “violenza” nei sentimenti come c’è nella musica, nella poesia, nella pittura, nelle “forze della natura”, quindi anche nei panorami che il nostro sguardo ama, perché cosa sarebbe un bel tramonto o il riflesso delle colline sul mare senza la tempesta incombente? C’è violenza nei cambiamenti d’età, nelle rivoluzioni, nelle morti che irrompono senza bussare alla porta, nelle rotture dei legami affettivi.

L’amore non può dirsi estraneo a tutto ciò, in diversi modi ne fa parte, cresce nelle rovine come nei prati fioriti o sulle panchine dei lungomare. L’amore ci sopraffà, ma ripudia la violenza dei sopraffattori. Combatte il male vero: la morte dei sentimenti come norma della vita, la violenza devastante dei morti viventi. Questo male non ha origine biologica o pulsionale. È un cancro della psiche. Segnala la decomposizione sociale del desiderio, la disfatta della passione».