L’infelice donna il cui marito ha ucciso, un mese fa a Latina, le loro due figlie dopo aver gravemente ferito lei, ha inviato un messaggio audio al suo gruppo di preghiera Comunità Cristo Risorto, che l’ha reso pubblico. Nel messaggio la madre privata delle figlie in modo catastrofico e esposta al peggiore dei lutti, parla della propria vita come miracolo e come tale giudica anche il fatto che «l’odio, il male e il rancore non hanno vinto». Conclude con queste parole: «Regna un senso di pace, pietà e misericordia. Regna l’amore che si sta estendendo a cerchi concentrici come da una goccia e sta arrivando lontano».

La sua rappresentazione di ciò che è accaduto e delle sue conseguenze in atto non è ovviamente realistica. L’amore che si affretta a occupare lo spazio ignorando il dolore e l’odio, che forza i tempi e cancella il travaglio del proprio ritorno, non è solido: rischia di franare o di trasformarsi in una gabbia delle emozioni dell’individuo traumatizzato e di contraffare il suo mondo interno. L’idea, la rappresentazione tutta mentale della realtà, può espellere i sentimenti. Ciò non è un esito scontato. Quando la perdita è troppo grave, insopportabile perché si possa affrontarla senza soccombere, negarla, sospenderla in una dimensione irreale il più a lungo possibile, si impone come unica soluzione. Il tempo, alleviando il dolore, la lama acuta che penetra la carne viva, rende possibile l’odio (che il troppo soffrire paralizza) e accessibile il lavoro del lutto.

L’odio tiene vivo l’amore nella sua potenzialità tutte le volte che le circostanze non sono favorevoli ad esso e protegge le relazioni dal pericolo dell’indifferenza. La madre colpita da un eccesso di cattiva sorte non deve solo elaborare una sua scelta amorosa, rivelatosi catastrofica, salvando il salvabile delle sue ragioni d’amore. Deve anche fare i conti con l’odio inconscio rivolto alle figlie morte: per averla lasciata sola, seppure per motivi estranei alla loro volontà, il che dal punto di vista della perdita non cambia nulla.

Le comunità religiosa a cui appartiene, dovrebbe aiutarla nel faticoso lavoro di recupero del suo dolore e del suo odio. Non è saggio usare l’amore come anestetico: indebolisce la sua forza creativa e lo appiattisce in un uso retorico che, a lungo andare, svuota di senso la realtà interna e quella esterna. Esso, diceva Proust, è frutto della nostra angoscia, sarebbe più preciso dire che nasce dal senso di mancanza. Viene dal lutto, che lo trasforma allontanandolo dalla ripetizione e dalla banalità e lo obbliga a far ricorso all’odio per misurare la distanza che rispetta la libertà dell’oggetto amato. È rispettando la differenza del suo oggetto che l’amore vive nel presente e non fa di un futuro illusorio, artificiale l’«oppio» di oggi.
Il motivo per cui papa Francesco è tanto inviso alle forze cattoliche conservatrici è il suo fermo voler farsi carico del dolore della vita terrena, dell’infelicità e dell’ingiustizia che abitano il presente. Non pensa a una vita ultraterrena che ricompenserà il più giusto e farà trionfare il bene sul male. Pensa, al contrario, che è la cura della sofferenza sulla terra che rende significativo il regno del cielo. Non odia ciò che contraddice la norma, né usa l’amore per indorare le pillole amare dell’esistenza. Non è un mercante di droghe.

Il vento gli è poco propizio. La domanda di anestesia è cresciuta a dismisura. La varietà e la ricchezza dei sentimenti, che non possono fare a meno del dolore e dell’odio, sono vissute come pericolo da scongiurare. Il paradiso sulla terra, l’impassibilità ridens che non ama il lutto, le sostituisce.