A Day Without Immigrants, una giornata senza immigrati, ha avuto pieno successo in tutti gli Stati uniti. Ristoranti e caffè chiusi, supermercati e catene di negozi disertati da dipendenti e clienti, scuole senza studenti. Sciopero.

L’America che non ci sta ora si fa anche sentire, concretamente, fa pesare con azioni di protesta il suo ruolo ormai fondamentale nella società americana.

Basta una giornata senza la presenza di quei lavoratori – americani senza documenti – che l’un-American Trump vorrebbe cacciare via dal paese, basta una giornata così per dimostrare che le tristi trovate elettorali di The Donald possono portare gli Stati uniti alla rovina.

Trump non riesce a fare quel salto di ruolo che, perfino per un personaggio eccentrico e lunatico come lui, è pur necessario per governare un paese grande e complesso, una superpotenza. Il passaggio da candidato a presidente non è ancora avvenuto e chissà se e quando avverrà.

E così, mentre le proteste nel paese continuano, crescono e assumono anche forme inedite come appunto il Day Without Immigrants, il presidente dà la sensazione di un improvvisatore spaesato, senza copione, più che di un leader, stravagante finché si vuole, ma che ha in testa un suo percorso, con tappe intermedie un minimo chiare.

Solo sul fronte dell’economia c’è per lui una buona notizia, la diminuzione, come non si registrava da decenni, di uscite dal mercato del lavoro e di richieste di cassa integrazione. Ovviamente il merito è della precedente amministrazione.

Ma è sul terreno della politica internazionale che è più evidente la recita di una parte che gli è del tutto estranea, con i suoi collaboratori e ministri, anche loro alle prime armi in politica, che rafforzano l’immagine di un’amministrazione senza bussola.

Ieri erano in Europa il nuovo capo della diplomazia, Rex Tillerson, che ha incontrato il suo omologo russo Sergei Lavrov, mentre il capo del Pentagono Jim Mattis era nel quartier generale della Nato a Bruxelles.

Il primo, considerato amico di Mosca, sembrava non sapesse cosa dire, era imbarazzato con i giornalisti; il secondo non si è discostato dal suo spartito di vecchio falco anti-russo, respingendo la proposta di Putin di collaborazione militare e spionistica contro il terrorismo.

Forse è la conseguenza del pasticcio creato dall’ormai ex- consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn, certo è che è difficile per il Cremlino decifrare le reali intenzioni di questa amministrazione nei suoi confronti. E naturalmente questa diplomazia altalenante e balbuziente verso la principale potenza globale con cui deve porsi in relazione l’America rende ancor più difficili da interpretare gli obiettivi reali della nuova amministrazione nei principali scacchieri. In Medio Oriente innanzitutto.

Il recente incontro con Benjamin Netanyhau, con la chiusura all’ipotesi della soluzione dei due Stati, non solo ha riverberi immediatamente molto negativi per i palestinesi e per i paesi della regione, ma non fa i conti con la Russia, ormai il principale player in Medio Oriente.

È chiaro che una simile partita, nella quale Israele assume un ruolo da padrone, senza significativi bilanciamenti, può svolgersi solo con il favore del Cremlino che, tra l’altro, non va dimenticato, ha rapporti ottimi con l’importante comunità di origine russa in Israele e con la sua leadership, a cominciare dal principale alleato-avversario di Bibi, il ministro della Difesa Avidgor Lieberman.

Come dimostra la protesta che attraversa gli Stati Uniti, e in particolare il Day Without Immigrants, l’America è un paese-mondo, una nazione attraversata e innervata dall’interazione e dall’intreccio con il mondo che è anche presente in essa, nazione d’immigrati. Per questo la politica internazionale ha sempre ricadute domestiche e viceversa. Anche l’incontro con Bibi lo dimostra.

Abbracciando The Donald, così come aveva platealmente avversato Obama, fa una scelta di campo che contrasta con l’orientamento della maggioranza degli elettori ebrei. Non solo il 70 per cento è democratico. Questa stessa maggioranza è favorevole alla soluzione dei due Stati e contraria alla colonizzazione della Palestina.

È così evidente la frattura con Bibi che il periodico progressista ebraico The Forward si chiede se Bibi «non stia intenzionalmente alienandosi gli ebrei americani». Per evidenti calcoli di politica interna, certo, perché il suo blocco elettorale in Israele è questo che vuole. E lì sono i voti, mentre i fondi sono nella minoranza ebraica americana più oltranzista. Legata a quel Trump che i liberal considerano antisemita.

A temperare la cupezza di quest’incontro e delle sue conseguenze, la netta sensazione che la coppia Bibi-Donald non ha un’aspettativa di vita lunga, forse è molto breve, per il venir meno di uno dei due contraenti, il primo nei guai a Tel Aviv e il secondo pronto presto a seguirlo in questo destino.