Si finisce con l’affezionarsi a questo Amleto che Valerio Binasco propone alle Fonderie Limone di Moncalieri (fino a domenica 19 maggio, produzione dello stabile di Torino teatro nazionale, di cui il regista è direttore artistico). È sicuramente simpatico, o forse meglio fa «tenerezza»: caparbio e ingenuo, avveduto e poco calcolatore, se non nei momenti estremi. È un eroe suo malgrado, molto contemporaneo, come quando fremente incontra il fantasma del padre e sentiamo risuonare A whiter shade of pale (così come la Girl dei Beatles scandisce il suo primo incontro con Ofelia, quando ancora ne pare innamorato). Lo spettacolo del resto, dietro l’apparente «disinvoltura» ha una sua monumentalità, di cui si può accusare giusto un’ombra dopo più di tre ore e mezza sui seggiolini della gradinata del sito paleoindustriale, le antiche Fonderie Limone.

CHE ORA sono anche il logo (con veri limoni di Sicilia all’esterno) della Lemon company, l’ensemble fidato con cui Binasco ha programmato di fare le sue regie allo stabile. Un ensemble di sicuro valore, che si muove in un montaggio spesso cinematografico, con estese punte di eccellenza. Il più sicuro è forse Laerte/Fausto Cabra, assieme al godibile Polonio/Nicola Pannelli e al calcolato e calcolatore usurpatore Claudio/Michele Di Mauro.

SI DIFENDONO le due presenze femminili, la regina Mariangela Granelli e l’Ofelia reattiva Giulia Mazzarino. Ma risultano tutti molto credibili e intensi, a cominciare dal protagonista Amleto, il giovanissimo Gabriele Portoghese, denso e risoluto, anche nei mancamenti di senso e determinazione (e nonostante la regia lo faccia recitare, lui esile e nervoso, per buona parte del tempo in mutande, e un cappotto saltuario). A nudo viene messo non solo lui, ma l’intera rete di rapporti di potere e dominazione, nascosti in quella corte «frivola» quanto trafficona e corrotta, che come in una regia di Ostermeier apre il racconto nel salotto di un party.
Valerio Binasco è stato lui stesso Amleto in un famoso trittico shakespeariano di Carlo Cecchi. Anche lì la traduzione, molto bella, era quella di Cesare Garboli. Che qui viene ogni tanto popolarizzata con qualche forma più facile, ma immediatamente riconoscibile. Forse su consiglio di Fausto Paravidino che firma la collaborazione alla drammaturgia. Ma nonostante tutto, il disegno di lettura di Binasco tiene, ed è una bella soddisfazione, per lo spettatore, riconoscere il valore politico e insopprimibile di quella temibile geometria familiare ed esistenziale.