«Che salto ha fatto ora, per la propria concitazione e il proprio fervore, un uomo fra i più penetranti, ingegnosi e conformi allo spirito di quell’antica e pura poesia che vi sia stato da lungo tempo tra i poeti italiani? Non lo deve egli a quella sua letale vivacità?», così scrive un indispettito Montaigne, riflettendo sulle condizioni di Torquato Tasso, da lui visto a Ferrara, custodito nello Spedale di Sant’Anna. La «letale vivacità» (splendido ossimoro) del giovane e già famoso poeta (35 anni) conosce, come è noto, sette anni di reclusione (1579-’86); non è qui la sede per discettare sulla presunta «pazzia» e sul mito romantico del poeta ‘incatenato’. Il dato di fatto che ci interessa è che quel Tasso a Sant’Anna non governava più i propri scritti, che, data la precoce fama del loro autore, cominciavano a essere copiati, a circolare manoscritti e a stampa, al di là dei suoi desideri e del suo controllo. Non mancarono una serie di apocrifi o di testi dubbi, tra cui una corposa commedia.
Tasso, uscito da Sant’Anna, più volte cercò di riprendere in mano le proprie opere, ma «peccante d’umor malinconico», come si autodiagnosticava, e per di più in inquieto moto di corte in corte, non riuscì, nei nove anni che gli rimanevano, a metter mano in modo definito alle proprie opere. La stagione dell’Indice dei libri proibiti, le revisioni e censure di lettori di Curia per il poema (la Gerusalemme liberata) contestualizzano infine un quadro di stampa ulteriormente problematico. Fatto sta, osservava Sanguineti, che il Tasso è uno dei pochi scrittori che noi leggiamo a suo dispetto, specie la Liberata, il cui testo vulgato, per varie ragioni, non risponde alla sua volontà (che aveva anche difficoltà a fissarsi in modo definitivo per i problemi di salute).
Così la filologia tassiana nei secoli è sempre stata posta a cimenti non da poco, per venire a capo di testi degni di fede, mancando spesso gli autografi dell’autore. Molto attesa la nuova edizione dell’Aminta, per le cure al testo di Roberto Trovato e con l’introduzione e il commento di Davide Colussi. Esce da Einaudi nella prestigiosa collana dei «Classici italiani annotati» (pp. LXIII-304,euro 38,00). Nella nota al testo Trovato dà ragione della sua innovativa scelta: nonostante a fine Cinquecento si fosse in pieno regime della stampa, il testo viene ora esemplato su un manoscritto Estense (della Biblioteca di Modena) del 1577, vicino alla fase di composizione e alle prime messe in scena (1573-’74). Finora ci si è sempre basati sulla tradizione a stampa e l’edizione corrente (stabilita da Sozzi nel 1957) fa riferimento a una stampa veneziana del 1590 (Aldo Manuzio jr.), intesa come ultima della volontà dell’autore. Ma a parte la difficoltà di fissare l’ultima volontà, come sappiamo, Trovato riscontra che quella stampa fu sottoposta a «correzioni editoriali», «una pratica documentata proprio per le edizioni aldine delle opere del Tasso» da una stampa postillata da Aldo Manuzio jr.
Più attendibile, rispetto alla selva delle stampe, la tradizione manoscritta (qui genealogicamente ricostruita) e questo scritto ferrarese coevo in particolare, con settentrionalismi congrui al primo Tasso, non ancora tormentato dalle annose revisioni dei suoi testi. Trovo molto giusto fissare in data alta, vicina alla sua genesi, quest’opera che parve «un portento» a Carducci, bella e sfuggente come poche nel nostro Parnaso. Veniamo così anche a riguadagnare un verso (presente nell’edizione Solerti di fine Ottocento), proprio in un passaggio cruciale, quando il giovane e «rispettoso» pastore Aminta confida a Tirsi (in cui Tasso figura se stesso) la genesi del proprio amore per la ninfa Silvia; mai prima in versi italiani si era scritta una così sottile fenomenologia dell’innamoramento, dalla prima «estranea dolcezza» al «non so che», al progressivo disvelamento del desiderio. Con uno stratagemma infine Aminta riesce a farsi baciare da Silvia e il bacio è raccontato nel suo stesso divenire, nel più raffinato e squisito erotismo. Ed ecco qui, nel classico paragone con le api su un fiore e le rose/labbra, appare il verso ritrovato (che metto in corsivo): «Né l’api d’alcun fiore / còglion sí dolce il suco / come fu dolce il mele ch’allhor colsi / da quelle fresche rose…». Quel «dolce suco», nella sua fragrante materialità, si innesta perfettamente in questa mirabile sequenza.
L’edizione è arricchita da un commento quanto mai attento. Il lavoro fatto da Davide Colussi è capillare per quanto riguarda le note, dove si offre una documentazione puntuale della folta varietà delle fonti (classiche e moderne) e dell’esegesi plurisecolare su questo testo. Per le prime, le fonti, è molto utile l’indice finale dei luoghi paralleli, in cui subito, a occhio, possiamo osservare un dato finora non considerato, vale a dire gli accorti trapianti dai «serbatoi della prosa», li chiama Colussi, ovvero il lessico novellistico d’epoca da Masuccio al variamente frequentato Bandello, per non dire dell’Ariosto teatrale. È un nuovo tassello che ci aiuta meglio a capire e gustare la straordinaria fusione dello stile dell’Aminta, una lingua elaboratissima e colta, ma del tutto limpida e lineare nell’esito, in quel «parlato che sfuma in canto», secondo la formula di Getto, citata da Colussi.
Ma in questi stessi giorni la biblioteca tassiana si è arricchita anche di un’altra importante edizione: le Lettere (1587-1589), a cura di Emilio Russo (Ledizioni «Biblioteca Italiana Testi e Studi», pp. 220, euro 24,00). Questa volta siamo davanti all’edizione di un autografo del Tasso (ancora nella Biblioteca estense di Modena), che in una serie di fascicoli allinea 78 lettere. Il testo di queste lettere è noto, perché già edite sparsamente a stampa dai primi del Seicento, ma la novità è questo corpus messo insieme dall’autore, probabilmente in vista d’una propria raccolta, poi come sempre non realizzata. Russo cura una scheda introduttiva molto dettagliata per ogni missiva e dà in apparato attenta registrazione di correzioni e cassature degli autografi, ma molto importante è il riordino cronologico dei testi (in un biennio di movimento del Tasso tra Roma e Napoli), correggendo e integrando varie datazioni fragili e dubbie fatte dal remoto quanto meritorio editore ottocentesco Cesare Guasti.
I destinatari sono tutti notabili di alto rango, dal papa, Sisto V, a cardinali e principi e loro segretari; le lettere sono accorate quanto ossessive richieste di soccorso, principalmente per il recupero della dote materna nel Regno di Napoli e per trovare una sistemazione meno precaria. Essenziale la liberazione dagli obblighi con il duca di Ferrara, cui si rivolge con il suo ossequio a dir poco ossimorico: «veramente miracoloso ch’io viva tanti anni con la sua disgratia, e con tanto disfavore quanto ha voluto ch’io habbia da tutto il mondo». Di rilievo, al riguardo, è la lettera del 1587 al Patriarca Scipione Gonzaga, amico di lunga data, assai dura verso la vita vissuta in corte, solo temperata da «l’otio letterato e la quiete de li studi».
Tra i vari porporati cui si rivolge vi è anche il bergamasco Giovanni Girolamo Albani, cui era anche lontanamente legato da relazioni familiari, un uomo di Pio V, con una vita anche avventurosa (vedi ora Lorenzo Comensoli Antonini, La maggioranza silenziosa della Controriforma, Unicopli, pp. 284, euro 20,00). L’ultima lettera del Tasso è però a un amico, Antonio Costantini, con cui amaramente ragiona della fortuna di sue opere che hanno arricchito altri ma non lui, a partire dal «mio Goffredo». Ed il fatto che a quasi dieci anni dalla stampa della Gerusalemme liberata, l’autore si ostini a chiamare l’opera in altro modo è il segno, chiosa Russo, «di un poeta impegnato in un’opposizione, tanto lucida quanto senza speranza, con il proprio tempo».