L’ etrema ineguaglianza sociale non è solo «sbagliata dal punto di vista morale, ma anche da quello della politica economica», diceva Barack Obama al pubblico del Knox College, in Illinois, il mese scorso, indicando il problema dell’abisso che in Usa separa ricchi e poveri come una delle priorità del suo secondo mandato, e invitando il Congresso a fare lo stesso. Con la citazione del grande affresco dickensiano ambientato sullo sfondo della rivoluzione francese, Bill de Blasio, il più liberal dei candidati democratici che ambiscono al Municipio di New York dopo 3 mandati di Michael Bloomberg, ha battezzato «A Tale of Two Cities» (Racconto di due città) il leit motiv della sua campagna elettorale. L’idea, in vista delle elezioni di novembre, è quella di posizionarsi come un antidoto alle politiche elitarie dell’attuale sindaco plurimiliardario.
Con l’aria che tira a Washington nei confronti di Obama, è difficile essere molto ottimisti sulle prospettive della dichiarazione d’intenti del presidente; e non si sa ancora se de Blasio sopravvivrà alla primarie del 10 settembre (il suo nemico numero uno è Christine Quinn, una democratica più centrista, spesso alleata di Bloomberg).
Certo è che, portato nel discorso di tutti i giorni dalla breve, folgorante parabola di Occupy, due autunni fa, il problema dello scarto tra il 99% e l’1% (contraddizione intrinseca dello spirito egualitario dell’American Dream) ha ormai messo salde radici nell’immaginario a stelle e strisce. E dal blockbuster hollywoodiano, al film d’autore, al piccolo schermo è uno dei temi forti dell’estate.
La separazione tra chi ha e chi non ha è letterale e geografica in Elysium, seconda regia del sudafricano Neil Blomkamp che aveva già portato la sua esperienza diretta di Apartheid nella sci-fi distopica di District 9. Rispetto a quella visionaria e sgangherata produzione indipendente, Elysium (in Italia il 29 agosto) arriva forte di un budget da blockbuster estivo targato Sony e dei nomi di Matt Damon e Jodie Foster. Ma il gusto politico pulp e l’energia rabbiosa, sporca, che aveva fatto del primo film un successo a sorpresa dell’estate 2009 sono presenti anche qui.
L’anno è il 2514. Prosciugata delle sue risorse naturali, arida come un deserto, l’aria irrespirabile, la terra ha un look tra ghetto, bidonville da metropoli del terzo mondo e pianeta discarica di Wallee. Su di essa vivono e lavorano come schiavi sotto la direzione di bianchi robot armati, i poveri – in gran parte ispanici e neri, con nomi come Da Costa, Santiago etc… A distanza di sicurezza, galleggia nello spazio blu un pianeta artificiale fatto apposta per i ricchi. Si chiama come il paradiso della mitologia greca, Elysium, luccica come argento smagliante e ha una forma in cui numerosi critici Usa hanno riconosciuto il logo della Mercedes Benz. Con nomi come Delacourt e Carlyle, i suoi abitanti riesidono in enormi Macmansion circondate da verdissimi giardini pieni di fontane. Ognuna della case è dotata di una macchina capace di scannerizzare il corpo umano rigenerando completamente qualsiasi cellula malata. A patto però che il corpo appatenga a un cittadino di Elysium. Giù sulla Terra i pod miracolosi non esistono, e di «Obama-care» nemmeno a parlarne.
Quando qualcuno degli «alieni» tenta la traversata spaziale a bordo di astronavi di fortuna per cercare di raggiungere il paradiso, Jodie Foster, tra Dick Cheney e lo sceriffo antimmigrazione dell’Arizona Dick Arpayo, li fa abbattere senza esitazione, spesso con l’aiuto di un violentissimo mercenario, interpretato dalla star di District 9 Sharlto Copley. Colpito da una massa di radiazioni mortali durante un incidente nella miserabile fabbrica dove lavora, l’operaio Matt Damon ha il disperato bisogno di farsi scannerizzare/curare da un pod. Diventa così, involontariamente (e potenziato da estensioni neuromeccaniche del suo corpo che ne fanno un gladiatore agguerrito) il leader del tentativo non solo di penetrare Elysium ma anche di riprogrammarne il Dna, resettando il computer che lo amministra per trasformare tutti gli illegali in cittadini legittimi.
Blomkamp non osa un magnifico finale nichilista come quello ideato da John Carpenter in Fuga da Los Angeles (uno dei film hollywoodiani più lucidi mai realizzati sul confine anche geografico tra chi ha e chi non ha, e condivide un pianeta le cui risorse sono in via di esaurimento): contro il suo happy ending non potrebbero nulla nemmeno i più agguerriti teapartisti della Camera Usa, che al momento stanno bloccando la pericolante proposta di legge sull’immigrazione in discussione a Washington. Ed è un peccato che Elysium sacrifichi gran parte della succose opportunità offerte dalla sua premessa a favore di inseguimenti spaziali e fragorosi corpo a corpo con i quali, evidentemente, la Sony pensava di catturare il pubblico giovanile. Ma tra sanità, immigrazione, rabbia e paura il film di Blomkamp cattura in modo innegabile e pregnante un certo spirito dell’America di questo momento.
Film attualissimo e, sotto un certo punto di vista, più disperato, anche il nuovo Woody Allen, Blue Jasmine, curiosa non-commedia che nasconde dietro a una premessa non estranea al cinema hollywoodiano classico (per esempio il capolavoro di Preston Sturges, Sullivan’s Travels) uno dei personaggi più irredimibili che la satira alleniana abbia mai architettato. Nata Jeanette e cresciuta in una famiglia adottiva, Jasmine (Cate Blanchett) ha più o meno riconfigurato il suo opaco Dna middle class in quello sfavillante di una «socialite» di Park Avenue grazie alle nozze con un «Master of the universe» di Wall Street (Alec Baldwyn). Ricchissimo e sollecito nei suoi confronti, lui la tradisce regolarmente con l’amica, la trainer o la collega di turno. I veri problemi però emergono solo quando, come Gordon Gekko e Bernie Madoff, il simpatico marito si rivela un truffatore di proporzioni colossali. Sola con il suo mega-set di Vuitton e a malapena i soldi per comprarsi un biglietto aereo (di prima classe naturalmente), Jasmine lascia l’ Upper East Side alla volta di San Francisco dove sua sorella (adottiva anche lei, ma fisicamente meno idonea a un re-styling wasp – il film di Allen esibisce allegramente un darwinismo spietato) si mantiene lavorando alla cassa di un supermercato e, lasciatasi alle spalle un matrimonio con il simpatico costruttore cafone Andrew Dice Clay, progetta di convivere con un altro coatto di nome Chili (Bobby Cannavale). Nel triangolo tra le sorelle e il fidanzato, Allen strizza l’occhio a Tennessee Williams. Non guasta che Blanchett sia stata un’applauditissima Blanche Dubois in una produzione di Un tram che si chiama desiderio messa in scena a Brooklyn qualche anno fa. Ma il rimando è puramente di superficie: il film è privo delle tensioni psicosessuali della piece di Williams, e Jasmine non è mai tragico/patetica come Blanche. È però immutabile, come scolpita nel granito, il personaggio artificiale e vuoto che ha inventato per se stessa, che le impedisce di rifarsi una vita.
Ricchissimi e poveri non possono coesistere secondo Woody Allen: non c’è astronave che tenga. Siamo oltre il punto di non ritorno. E, in effetti, di questi tempi, l’unico posto dove li si vede insieme è la prigione, come nella bella serie di Netflix Orange is the New Black. Ma questa è un’altra storia.