La conquista di nuove frontiere appartiene per default all’immaginario americano. Solo che in Country for Old Men, titolo dal sapore western che gioca a porsi apertamente in antitesi con gli scenari coeniani, non esiste più alcuna forma di mitologia. Non ci sono eroi, né infinite praterie. Ciò che invece resiste sono gli orizzonti lontani, non più nel far West ma a Sud, sulle Ande, a Cotacachi, dove il sole splende tutto l’anno ed è ancora possibile immaginare un futuro. Un nuovo Eden da colonizzare. La conquista, però, assume oggi i contorni della sconfitta, dal momento che i nuovi gringos dell’era Trump non sono altro che pensionati della middle class a stelle strisce, trasferiti in Ecuador per effetto della recessione economica, con la speranza di riuscire a mantenere quel tenore di vita non più sostenibile in patria. Migranti, insomma. O economic refugeees, come loro stessi si definiscono, in cerca di salvezza e in fuga da una terra che, dopo una vita di lavoro e di risparmi, li scarica e tradisce condannandoli a un futuro di povertà.

Il documentario di Stefano Cravero e Pietro Jona, menzione speciale «Corso Salani» a Trieste Film Festival 2018, e ora in sala, distribuito da Lab80, osserva questo curioso fenomeno di contro-esodo ridefinendo l’immaginario. Al posto dei cavalli corrono i Suv, bastoni e girelli al posto delle pistole (salutando magno cum gaudio il divieto di possesso di armi da fuoco) e alle carovane si sostituiscono i torpedoni che, nella sierra andina, a quota duemila metri in un lembo di terra stretto tra due vulcani, portano centinaia di anziani traditi dall’American Dream, fermamente intenzionati a replicare quel modello anche a migliaia di chilometri da casa.

Michael, ex culturista, ex cantante, ex produttore televisivo arriva da Los Angeles e la sua nuova abitazione è in pieno stile kitsch californiano, con tanto di fontana à la Borromini in mezzo al giardino; Bruce e Claudia sfornano torte in cucina, siedono su un divano di pelle modello «Florida», ascoltano alla radio i notiziari americani e seguono le partite di football in tv, nell’attesa della chiamata per un intervento di impianto di una protesi d’anca che non potrebbero permettersi negli States; Diane, ex psicologa di supporto alle famiglie vittime della sparatoria alla Columbine, danza col marito in salotto, sulle note che escono da un enorme jukebox.

Eppure, al di là di maldestri tentativi di imparare la lingua locale e di frequentare corsi di ginnastica organizzati ad hoc, neanche stranieri in terra straniera gli yankee riescono a mostrarsi disponibili a un ideale di integrazione. Le loro case sono tutte dotate di sofisticati sistemi di allarme, muri, cinte, palizzate. Per proteggersi dall’altro, chiusi in una bolla artificiale, dissociati dall’ambiente circostante, affrancati dal presente. Emarginati. Relegati. Esclusi. Al di qua e al di là dei propri confini. Ed è qui che Country for Old Men si fa metafora universale della moderna società occidentale. Asserragliata nel comfort di un benessere economico che si paga a costo della libertà.