Nessuno sa raccontare l’America come Springsteen, misurare le parole e disegnare spazi con un gusto cinematografico. Western Stars – disco solista pubblicato lo scorso giugno e ora anche concerto documentario, presentato in anteprima a settembre a Toronto e ieri alla Festa del Cinema di Roma – è forse uno dei momenti più crepuscolari della carriera del Boss. L’ideale seguito – se vogliamo – delle serate autobiografiche per chitarra e voce passate sui palcoscenici di Broadway durante il tour «solo» di due inverni fa dai numeri stratosferici: 113 milioni di dollari in 236 date totali con più di 223 mila biglietti venduti.

Western Stars è un’ode all’Ovest americano e ai personaggi – perlopiù dall’indole solitaria – che popolano le tredici canzoni del disco, come l’autostoppista di Hitch Hikin che trova il passaggio di un automobilista e della compagna incinta, poi di un camionista che gli mostra la foto della fidanzata. Lui ascolta, sale, scende ma prosegue senza nessuno. Queste storie Bruce le ha volute raccontare anche nel doc – che dopo Roma vedremo sugli schermi italiani il 2 e 3 dicembre, di cui è anche regista insieme al suo collaboratore di lunga data Thom Zimny. Non un semplice film concerto dove si ricostruisce la genesi dei tredici pezzi che compongono l’album – a cui ha aggiunto l’unico pezzo non firmato da lui, Rhinestone Cowboy una vecchia cover di Glen Campbell, ma occasione per Springsteen di scoprire un lato più fragile e intimo di se stesso. «Sono al diciannovesimo album e ancora parlo di macchine – scherza il Boss – una volta era simbolo di libertà, oggi meno». Nella vita, sottolinea: «Tutti abbiamo le nostre ferite e siamo tutti in cerca di qualcuno le cui fratture coincidano con le nostre».

NEL DOC duetta con Patti Scialfa, compagna di vita: «In questi anni ho cercato di fare i conti con i lati più duri nel mio carattere – confessa nel film – Per un lungo tempo quando arrivava nella mia vita una persona a cui tenevo facevo di tutto per ferirla. È un aspetto di me con cui ancora combatto, ma sono migliorato». Girato di fronte a pochi amici in una sala ricavata in un vecchio fienile nella sua tenuta di Colts Neck nel New Jersey con parte della sua band, Patti Scialfa e un’orchestra di 30 elementi, gli ottantatre minuti del film vedono un alternarsi di video e canzoni la cui versione dal vivo – documentata anche nel disco colonna sonora che la SonyMusic licenzia oggi – ne esalta le caratteristiche più orchestrali.

GIOCANDO un po’ all’opposto dell’altro suo capolavoro solista The Ghost of Tom Joad (1995), perché se in quell’occasione i pezzi erano lasciati nudi quasi scarnificati, qui gli imponenti arrangiamenti orchestrali servono per sottolineare i colori dei luoghi, i personaggi, le storie. Ma Springsteen è sempre attento a non esagerare, trattenendosi prima che l’epica rischi di travolgere l’afflato melodico dei brani, la cui scrittura sembra accostarsi a tratti a Kurt Weill e Bertolt Brecht.