Da giovane, Walker Evans voleva fare lo scrittore. Era stato a Parigi ed era rimasto folgorato dall’aria frizzante della città europea, soprattutto dagli scrittori che affollavano i caffè e naturalmente dall’aura che circondava il nome di Nadar, pioniere della fotografia. Non divenne proprio un romanziere, Evans, ma la sua capacità e il desiderio pressante di raccontare i tempi in cui viveva presero un’altra forma e le sue qualità di affabulatore si riversarono sulla strada (ancora poco lastricata) dell’immagine. Così, quando iniziò a fotografare, intorno alla fine degli anni Venti (era nato nel 1903 a saint Louis), lo fece con un’attitudine da letterato, tanto che a notare i suoi scatti degli esordi – poco affini a quelli di uno Stieglitz, più votato verso composizioni artistiche dell’inquadratura – furono artisti, poeti ed editori di riviste culturali. Piaceva probabilmente la mano ferma dello storyteller, l’acuta osservazione di scorci di città, con i suoi palazzi modernisti, la serialità insistita dei paesaggi e colpiva lo sguardo anche quella massa sociale di individui che si dirigevano velocemente verso l’anonimato a cui li condannava il mondo industriale e il capitalismo nascente. Evans, più tardi, sarà il «cantore» drammatico della Grande Depressione, con una galleria di intensi ritratti delle famiglie e le loro condizioni di vita, una volta costretti all’esodo dalle metropoli. Se proprio si vuole trovare un paragone letterario, il riferimento imprescindibile resta un narratore come Steinbeck.

05_WE_Labor Anonymous, Fortune, November 1946 Courtesy of the Metropolitan Museum of Art, New York.
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Fra i personaggi attenti a ciò che offriva la scena contemporanea statunitense, c’era Lincoln Kirsten, a quel tempo super consulente per il nuovo Moma. Una manciata di anni dopo i suoi primi tentativi con obiettivi e camera oscura, nel 1931, Walker Evans aveva già conquistato la sua prima commissione: un reportage sulle architetture americane del XIX secolo, lo stesso che poi finì in mostra nel prestigioso museo, affidando un ruolo da protagonista all’«arte della riproduzione».

Ora Palazzo Magnani di Reggio Emilia, sull’onda dell’undicesima edizione del festival di Fotografia Europea, propone due appuntamenti con il maestro della visione. La mostra Anonymous, che arriva dopo le tappe di Arles e Bruxelles (a cura di David Campany, Jean Paul Derridder e Sam Stourdzé) focalizza l’interesse sul lavoro redazionale del fotografo, quando pubblicava le sue immagini sulle riviste corredandole di testi-racconto, che spesso diffondevano elementi di controinformazione rispetto alla retorica governativa a stelle e strisce. Era lui comunque a seguire tutto il processo: argomento, selezione foto, parte scritta e impaginazione grafica. L’altra rassegna, a cura di Laura Gasparini (catalogo Silvana editoriale), sposta la prospettiva e riconduce il reporter in Italia, evidenziando le affinità elettive che legarono con un filo rosso le nuove generazioni di fotografi del dopoguerra alla poetica di Walker Evans, fatta di piccoli oggetti quotidiani privi di una evidenza significativa (gli stessi che poi finì per collezionare con una certa ossessività, anticipando la Pop art). Insegne, facciate di case, carrettini ambulanti, volti qualunque di passanti, persone in metropolitana (che riprendeva nascondendo la macchina fotografica), miseri agricoltori ritratti quando lavorava per la Farm Security Administration.

L’America di Evans non luccicava come i palcoscenici di Broadway o gli studios cinematografici che sfornavano divi. Era spoglia, desolata, profondamente hopperiana. Forse meno astratta e più vernacolare rispetto al pittore. Ed era pure terribilmente anonima e casuale. In fondo, anche lui condivideva la medesima precarietà di esistenza dei suoi soggetti. Cercava di sbarcare il lunario, con commissioni e viaggi su e giù per il paese, in un’epoca in cui per la fotografia non esisteva un vero e proprio mercato se non quello delle riviste e dei libri.

In mostra a Reggio Emilia, ci sono anche molti scatti rubati, quelli che Evans raccoglieva con la sua Contax formato 35 mm, tenuta sotto al cappotto. I non luoghi immortalati, i non personaggi còlti di sorpresa, gli anti-eroi che attraversavano la metropoli, distratti, pensierosi, quasi marionette sul set della vita, sono la più potente macchina del dissenso che un fotografo potesse azionare negli anni ’40.
Non a caso, fedele alla sua poetica delle piccole cose, prima di morire nel 1975 Walker Evans lasciò questa scritta: «Do not disturb the arrangement of tin beer caps in this wash bowl», non disturbate la sistemazione degli anelli delle lattine di birra in questo lavandino.