A due anni di distanza dalle elezioni presidenziali che hanno consegnato Donald Trump agli Stati uniti e al mondo intero, e alla vigilia del voto di midterm, che ne dovrebbero verificare lo stato di salute e il livello di popolarità nel Paese, una cosa appare certa: nessun Presidente americano ha goduto di una così solida impopolarità tra gli intellettuali e gli scrittori.

Sui social e su Twitter si è creata una vera e propria comunità trasversale, che ha le sue punte di diamante in maestri della narrativa e figure di grandissima popolarità: da Joyce Carol Oates, che non dimentica mai di sottolineare come Trump non abbia conquistato il consenso popolare ma solo quello dei Grandi Elettori (avendo ottenuto, di fatto, due milioni di voti in meno rispetto a Hillary Clinton), a Stephen King, che su Trump ha dispiegato un sarcasmo senza pari, elevandolo a responsabile – o peggio ancora, a orgoglioso portavoce – di un diffuso degrado etico, a Don Winslow, che alle politiche migratorie e alle menzogne del neopresidente ha dedicato una serie serrata di tweet al veleno.

ESISTE però, al di là delle prese di posizione personali, un altro modo di «leggere» il fenomeno Trump attraverso le parole degli scrittori: viaggiare nelle loro narrazioni, disegnando una vera e propria geografia di storie, e concentrandosi in particolare sugli Stati che rappresentano lo «zoccolo duro» del suo elettorato, o su quelli che, strappati a sorpresa ai democratici, hanno determinato un autentico scossone nel quadro politico del Paese.

Si tratta, evidentemente, di un’impresa che richiederebbe un volume intero, e della quale si può qui solo delineare un quadro parziale, attingendo ad alcuni libri pubblicati negli ultimi anni e disponibili ai lettori italiani.

Libri, tutti, capaci di disegnare, per mezzo della galleria di personaggi che vi sfilano, il ritratto di un’America disillusa, spesso impoverita, diffidente verso Washington e qualunque limitazione delle proprie libertà da parte dello Stato federale, tentata da recrudescenze razziste, sospettosa nei confronti dei nuovi migranti, specie se provengono dalle terre del sud, pronta a calarsi nuovamente nell’antica logica dei pionieri e del Far West, in base alla quale la giustizia va somministrata secondo l’antica legge del taglione.

Partire dalle roccaforti repubblicane è ovviamente la via più semplice. E un modo efficace per farlo potrebbe essere prendere in mano l’ultimo romanzo di Joe Lansdale, ambientato, come quasi tutti i suoi libri migliori, in East Texas, tra paludi, serpenti, alligatori e rednecks che definire razzisti sarebbe riduttivo.

DISCRIMINAZIONI, VIOLENZE e linciaggi sono per Lansdale pane quotidiano, e nei suoi romanzi più ambiziosi e personali divengono parte integrante di una vera e propria riscrittura della storia americana, come accade, per esempio, nel western revisionista Paradise Sky, storia di Nat Love, cowboy e pistolero afroamericano.

Ma la vocazione antirazzista non è meno potente nella serie più «leggera» di Lansdale, che ha per protagonisti due detective improvvisati: Hap Collins, bianco, liberal, eterosessuale, e Leonard Pine, nero, conservatore e gay.

E che nel suo ultimo episodio, il recentissimo Il sorriso di Jackrabbitt (Einaudi), prende di mira tanto le tendenze discriminatorie dei rednecks quanto il ben più insidioso suprematismo bianco di un raffinato manipolatore, teorico di un nuovo apartheid, educato e intelligente ma proprio per questo tanto più insidioso e pervasivo.

Oltre a essere ricettacolo di antichi razzismi, il Texas è anche terra di frontiera: quella tra Stati uniti e Messico, autentica ossessione e topos della campagna elettorale di Trump, e che ha nel Rio Grande, il fiume che divide i due paesi, la sua icona più celebrata.

È ALLA DIFFICILE INTEGRAZIONE dei messicani immigrati in America, alla nostalgia della propria terra, al dolore nel vederla devastata dalle guerre di droga e dal potere dei narcos, che Benjamin Alire Sàenz, narratore, poeta e attivista con base a El Paso, ha dedicato il suo libro più ammirato.

Raccolta di racconti legati l’uno all’altro dalla presenza costante di un celebre locale di Ciudad Juarez, dove i personaggi finiscono per incontrarsi o annegare le proprie miserie nell’alcol: Tutto inizia e finisce al Kentucky Club (Sellerio) rappresenta un esempio probabilmente insuperato di narrativa di frontiera.

A meno che, ovviamente, non ci si voglia spostare sui territori del noir, per approdare alla democraticissima California di Don Winslow e ai due romanzi che gli hanno assicurato la fama, in Italia e non solo: Il potere del cane e Il cartello, altrettanti capitoli di una saga che dovrebbe concludersi il prossimo anno con un terzo volume e che ricostruisce, con inaudita potenza narrativa, cinquant’anni di lotta al narcotraffico e di inconfessate complicità tra apparati del Governo americano e cartelli della droga messicani.

Spostandosi progressivamente verso est, è in un’altra roccaforte repubblicana come il Mississippi che sono ambientate le storie di Jesmyn Ward, la voce più potente della nuova letteratura afroamericana, capace di raccogliere e aggiornare l’eredità di Toni Morrison e di costruire affreschi narrativi nei quali un presente impoverito e la pesante eredità dello schiavismo si intrecciano e trovano la propria desolante sintesi in un razzismo strisciante e pervasivo, e nella consapevolezza che, per sfidarlo, sia necessario lavorare senza sosta alla ricostruzione della propria identità, alla tutela del proprio microcosmo famigliare e delle tante storie che ne hanno scandito, nel tempo, la sopravvivenza.

È QUESTO IL TEMA tanto di Salvare le ossa (NN editore, rievocazione indiretta, tra l’altro, dell’uragano Katrina, nel quale l’autrice ha perso la propria casa e ha fatto personalmente i conti con il razzismo e la crudele indifferenza dei bianchi), quanto di Sing, Unburied, Sing (di prossima pubblicazione in Italia), entrambi premiati con il National Book Award: romanzi di grandissimo respiro, centrati su protagonisti giovani o giovanissimi e sul loro viaggio, letterale o metaforico, in un Paese nel quale le ferite della storia sanguinano ancora, e l’unico modo perché, finalmente, cicatrizzino sta non nel rifiuto di un passato di dolore, ma nella sua piena assunzione all’interno della propria, complessa identità.

PROSEGUENDO ANCORA verso est e approdando in South Carolina, è pressoché inevitabile imbattersi in una variante dei rednecks che si può ritrovare, trasversalmente e con infinite varianti, in larga parte degli Stati uniti: si tratta di quelli che William Faulkner aveva definito i «poveri bianchi» e che Erskine Caldwell aveva ritratto, negli anni Trenta, in romanzi memorabili come La via del tabacco e Piccolo campo (ambientati entrambi in Georgia). Nella vulgata sociologica, tuttavia, vengono chiamati white trash.

Eredi diretti, secondo Nancy Isenberg, autrice di un apprezzato saggio dal medesimo titolo, di quei «servi a contratto» che, giunti in America pressoché in contemporanea con gli schiavi neri, attratti dalla prospettiva di riacquistare la libertà attraverso il lavoro, rimasero però esclusi da quel sogno di mobilità sociale su cui gli Stati uniti hanno edificato la propria mitologia.

WHITE TRASH è, a tutti gli effetti, la famiglia allargata che Dorothy Allison rievoca nel romanzo autobiografico La bastarda della Carolina (Minimum Fax), tra violenza maschile (compresa quella, particolarmente tragica e brutale, subita dalla protagonista Bone a opera del patrigno) e resilienza femminile; white trash è la ricca e complessa umanità che popolava i primi romanzi di Cormac McCarthy, ambientati in Tennesse (Figlio di Dio e Suttree in particolare, entrambi Einaudi); e white trash sono i personaggi dei racconti di Chris Offutt (Nelle terre di nessuno, Minimum Fax), ambientati nel Kentucky più profondo e isolato, tra antiche leggende e superstizioni, povertà e sconfitte, alcol, depressione e un uso a dir poco disinvolto delle armi.

E SE LO SGUARDO DI MCCARTHY, pur non privo di pietas, rimaneva sempre distante e sopraelevato rispetto alla prospettiva bassa e creaturale dei suoi protagonisti, Offutt e Allison scrivono ponendosi sullo stesso piano dei personaggi e così riscattandoli, nel nome di una comune appartenenza.

Muovendosi ancora più a Nord, fino a raggiungere gli Stati della Rust Belt che, passando da una maggioranza democratica a una repubblicana, hanno di fatto sancito, insieme alla Florida, il successo elettorale di Donald Trump, il quadro offerto dalla miglior narrativa degli ultimi anni non cambia.

Basti pensare alla Pennsylvania di L’America sottosopra, di Jennifer Haigh (Bollati Boringhieri), ennesimo capitolo di una vera e propria saga centrata sulla città di Bakerton, attanagliata dalla crisi economica derivante dalla chiusura delle miniere e insidiata dalla scoperta di un enorme giacimento di gas naturale, da sfruttare con la tecnica del fracking. Ancora più sconcertante l’Ohio di Donald Ray Pollock – trentadue anni trascorsi lavorando come operaio in una cartiera – che negli strepitosi racconti di Knockemstiff e nel suo primo romanzo, Le strade del male (entrambi pubblicati da Elliott) mette in scena un’umanità degradata e inferocita dall’assenza di lavoro e di qualunque prospettiva di crescita, e capace di sprofondare in abissi di violenza così efferati e brutali da spaventare più di un recensore.

NELLE PAGINE DI POLLOCK, ma anche in quelle, più delicate e venate di ironia, di Haigh, la Rust Belt appare segnata da un livello quasi insostenibile di sofferenza e impoverimento, reso ancora più tragico e irreversibile dal progressivo sgretolarsi di quella solidarietà e di quel senso di appartenenza che avevano fatto dell’America operaia una roccaforte democratica.

Tracce di questo mondo senza speranze, ripiombato in un individualismo povero di prospettive, si trovavano già, senza dubbio, in Middlesex, capolavoro di Jeffrey Eugenides: un ritratto a tutto tondo di Detroit che si distende fino a coprire l’intero Novecento, dall’avvento della fabbrica fordista alle grandi rivolte razziali, fino alla deindustrializzazione.

E TRACCE non meno significative, anche se più indirette, traspaiono nei racconti new weird e horror di un altro autore del Michigan, Thomas Ligotti: avvolto nel mistero e in costante reclusione, proprio come il suo maestro e modello H.P. Lovecraft, ma capace di veicolare – nei suoi libri, tutti pubblicati dal Saggiatore, e in particolare nel saggio filosofico La cospirazione contro la razza umana – un pessimismo radicale e una sfiducia assoluta nel genere umano che ne fanno, in una qualche misura, l’anti-ideologo di un paese che sembra aver perso, forse in via definitiva, la capacità di sognare.