Con l’amarissima fine del film Easy Rider, Dennis Hopper, regista e interprete di quella ballata per la libertà, sancì la caduta verticale dell’American Dream. D’altronde, la guerra del Vietnam era al suo apice e la cavalcata sulle moto di alcuni spiriti ribelli con capelli lunghi e giornate di vagabondaggio puro da spendere attraversando gli Stati Uniti, non poteva che confluire nella tragedia dietro l’angolo.

Anni dopo, lo stesso attore e cineasta che aveva inventato l’immaginario della New Hollywood, corteggiato la cultura hippy, le droghe, le visioni allucinate dell’lsd, predicato e praticato la sessualità senza catene, amato la musica rock, in preda a uno dei suoi innumerevoli eccessi abbandonò la consueta spericolatezza politica per affiancarsi alla dinastia repubblicana dei Bush, trasformandosi in un tipo guerrafondaio e bigotto. Il suo mito si incrinò: l’ex adolescente alternativo di Gioventù bruciata infranse il cuore di molti fan e, alla fine, rimase intrappolato anche lui in quella ragnatela fatale. Nel 2008, due anni prima di morire, fece atto di pentimento e si schierò con Barack Obama: era troppo tardi ormai e la sua stella radical, tutta genio e sregolatezza, si era offuscata inesorabilmente.

A riabilitare la figura di un Dennis Hopper difficilmente classificabile fra i divi mainstream, ci pensa ora la mostra inauguratasi presso la galleria Gagosian di Roma, esponendo (fino all’8 novembre) alcune serie di fotografie che accompagnarono la quotidianità – letteralmente ora dopo ora – dell’attore e artista. Una passione smisurata, un’ossessione quella per l’inquadratura e l’obiettivo da puntare sulla realtà che dovette intuire anche uno come Francis Coppola: lo scelse, infatti, per il ruolo del fotoreporter sedotto dal carisma del colonnello Kurzt in Apocalypse Now, personaggio a cui Hopper consegnò gran parte della sua effervescenza creativa, tendente a mimare la follia.

Scratching the Surface è la personale dedicata a quel ragazzo che già a 18 anni scattava senza sosta («sono sempre stato un fotografo nervoso») perché fino a quando non comparve la produzione di Easy Rider all’orizzonte (aveva 31 anni), il suo amore per la guida senza mèta, la mania di collezionare oggetti trovati casualmente in viaggio, l’adorazione per gli artisti e musicisti, il dna di «persona visuale», come gli piaceva definirsi, erano rimasti tutti impressi dentro i rullini della Nikon o delle macchine estemporanee che utilizzava. Poi, uscì allo scoperto, vagò «on the road» e, idolatrando Kerouac, condivise con molti della sua generazione l’illusione di un’America senza più frontiere, percorribile secondo le proprie geografie sentimentali e non le leggi dettate dallo star system.

Così, se quel film epocale può considerarsi un western contemporaneo dove al posto dei canyon c’è la strada asfaltata e al posto dei cavalli, rombano le motociclette Harley Davidson Chopper, con gli alti manubri e le forcelle allungate che penetrano il mondo, si può dire che le fotografie di Hopper rispondono a quel medesimo desiderio di emancipazione e anarchico arbitrio per un’esistenza «fai-da-te». Non sono mai snapshot, come si potrebbe essere indotti a credere, viste le attitudini del personaggio. Le istantanee, nella poetica hopperiana, erano proprio bandite: piuttosto, era interessato «agli aspetti formali della fotografia, alla composizione, alle linee che creano un campo, una superficie, un muro…».

Attento al luogo – con un debole per i graffiti parlanti sparsi per Los Angeles – oltre che alla persona, acuto osservatore dell’atteggiamento rivelatorio, Dennis Hopper era in grado di cogliere quel famoso attimo di cui andava ragionando Cartier Bresson. È un momento psicologico, un mood, una sintonia umana fra osservatore e osservato. Timido di partenza – almeno così si descriveva – Hopper usava la camera come uno schermo protettivo, per tenersi alla larga dalle persone. Era un originale filtro che poneva fra lui e gli altri. Ma la macchina fotografica era anche una «membrana trasparente», un dispositivo emozionale adatto a svuotare la mente e allertare i cinque sensi per annusare, ascoltare, toccare e vedere intorno a sé. Non ritagliava mai le foto: una volta scelta l’inquadratura giusta, sarebbe stata stampata così come era nata. Amava Duchamp e la sua idea dei readymade. E condivideva la filosofica sparizione dell’autore. «L’artista del futuro sarà colui che punterà il dito davanti a sé e indicando qualcosa dirà: ’quella è arte’», proclamava il padre del dadaismo e Hopper era al suo fianco.

Vicino agli artisti pop – i bellissimi ritratti di Andy Warhol, Jasper John, Robert Irwin, Oldenburg a una festa di matrimonio – Dennis Hopper era anche un collezionista compulsivo. Lo faceva per amicizia e per piacere: non è casuale la comparsa del suo nome nella lista dei cento collezionisti più importanti del mondo. L’ansia di documentare un’America diversa era finita anche sopra al suo divano di casa. Quel che cattura Hopper è l’everyday di personaggi divenuti poi leggendari, icone del cinema (Peter e Jane Fonda ) o della musica (James Brown, Grateful Dead).  Ci sono anche gli States dei diritti civili, delle marce di protesta, di Martin Luther King. L’immagine di Ed Rusha, davanti alla vetrina di un negozio con elettrodomestici, è il manifesto culturale di una società in rapida mutazione  antropologica.

Da Gagosian sono esposte, come fossero un mosaico scomposto per luoghi e cronologie, le fotografie della fine anni Sessanta e primi Settanta, quelle appartenenti alla serie Drugstore Camera, sviluppate nei laboratori anonimi, «non luoghi» tipici dell’America di allora. E in mostra compaiono anche alcune vintage prints dove Hopper immortala i suoi amici, i viaggi, gli oggetti che andranno a comporre le nature morte. «Non ho mai guadagnato un cent con le mie fotografie. Anzi, costavano soldi, ma mi tenevano in vita».

La prima macchina di buona qualità gliela regalò Brooke (avrà cinque mogli e quattro figli). Cominciò a portarsela ovunque, tanto da essere ripetutamente preso in giro dai conoscenti perché sembrava un perfetto turista in casa sua.