I figli di Sarah Ross Parks erano già quattordici, in fila di età e di altezza quando il 30 novembre 1912 nasceva l’ultimo, Gordon Roger Alexander Buchanan. Come gli altri, anche Gordon sarebbe cresciuto con il refrain della frase preferita della madre: «quello che può fare un bianco, lo può fare anche un nero».

I Parks erano neri, metodisti e poveri, dignitosamente poveri. Abitavano a Fort Scott nel bel mezzo del Kansas agricolo, caldo in estate e freddo in inverno, percorso da improvvise e violente precipitazioni che lasciavano le piantagioni schiacciate a terra. A Fort Scott, il razzismo si respirava a pieni polmoni e la segregazione tagliava a fette la cittadina. A scuola erano tutti insieme perché c’era un unico caseggiato, ma i campi gioco erano per i bianchi. Ogni tanto, per una sciocchezza qualsiasi, a qualcuno girava la testa e il sangue imbrattava il suolo. Così cresceva Gordon, in una contraddizione lacerante, perché sapeva di essere uguale ai bianchi ma quello che vedeva ogni giorno era il contrario.

Una rivista come «bibbia»
A quindici anni tutto cambia: Gordon passa la notte accanto alla bara della madre, «pieno di terrore ma con una strana sensazione di sicurezza», in un singolare connubio di timore e di forza che lo accompagnerà per il resto dei suoi novant’anni e passa.
Subito dopo è fuori di casa; per vivere suona il pianoforte in un bordello, poi in una band, fa il portiere, il facchino, l’inserviente sui treni. Qui legge i rotocalchi dimenticati sui sedili – Life in particolare – dove i servizi illustrati gli aprono mondi insospettati. Lo stupore di fronte alla meraviglia dei racconti ibridi, fotografie impressionanti di qualità e di nitidezza, testi che sembrano o sono stralci di letteratura americana, impaginati dai ritmi sincopati, storie che vibrano di forza e novità, questo stupore che lo tiene sveglio di notte gli rimarrà impresso per sempre.
Life è la sua bibbia da comodino: «Tenevo la rivista sotto il cuscino nella cuccetta. Riflettevo e osservavo. Osservavo e riflettevo». Legge, assimila, osserva, vaga di città in città alla ricerca di un mentore sino a che si identifica con un cameraman che una sera in un cinema di Chicago mostra le riprese di un incidente. Colpito dal personaggio e dal suo successo, Parks acquista pochi giorni dopo la sua prima macchina fotografica. Non ha importanza che l’aneddoto sia vero o meno, che il ricordo ricami un vuoto dell’esperienza, ciò che resta è l’aver trovato il modello, l’aver scelto quel modo e quella modalità come fondativi del destino. L’eredità materna, che si concentra tutta in quella frase «quello che può fare un bianco, lo può fare anche un nero», può finalmente essere raccolta e dispiegata nella biografia. Gordon Parks diventerà fotografo per la Farm Security Administration (l’organismo che aveva promosso la campagna fotografica della New Deal Agency), poi per Life, la rivista dei suoi sogni. E poi fotografo di moda per Vogue e regista, e compositore, e poeta e scrittore. E ogni volta con la stessa esuberanza di carattere e la stessa compostezza formale.

Grammatica visiva
Se un nero e un bianco sono uguali, occorre che questa verità diventi visibile a tutti, occorre che le storie dei neri siano raccontate per davvero , prendendo il tempo per conoscerli e per fotografarli in modo pacato. Che non si cada allora nella trappola della retorica di tipo rivendicativo, ma che ogni narrazione sia nutrita dalla vita dei luoghi e delle persone che li abitano, quasi fosse un album di famiglia. L’immagine, la parola, la musica siano il vessillo del riscatto della verità biologica, siano dunque «un’arma da usare contro tutto quello che non mi piace dell’America».

È questa consapevolezza così radicata e così rara in quegli anni che probabilmente gli permette di stare in una posizione di non violenza quando i più organizzati tra i movimenti dei neri americani cercavano invece lo scontro violento. Se l’arma è la macchina fotografica (o la penna, o la cinepresa) lo stile è il proiettile per colpire nel segno. Il piano dell’immagine è organizzato per fornire informazioni di luogo e di tempo, le riprese sulle persone sono manifestamente empatiche, il tutto è sorretto da una grammatica semplice, intelligentemente controllata.

 

[do action=”citazione”]Tentare di fermare le stragi di ragazzi a Harlem non sarebbe stata un’avventura giornalistica in più da inserire nel curriculum. Sentivo ancora vivo in me il tormento che la morte dei miei amici aveva lasciata sulla mia infanzia. Adesso avevo finalmente l’opportunità di fare davvero qualcosa[/do]

Il resto, i grandi bordi neri e le luci radenti sui volti, le chiusure prospettiche, la centralità dei soggetti isolati nel vuoto sono le spie della sua ricerca interiore, sono il segno della sua presenza fatta di sensibilità e dolcezza, di energia e di ascolto mai prepotente.

Si direbbe che Parks non cerchi uno stile, ma è certo che lo stile lo accompagni: il racconto è necessario alla sua esistenza perché questa è la sua forma di lotta contro la povertà, il riscatto da un’infanzia divisa è forse il suo fine personale, l’uguaglianza è di certo il senso profondo che informa la sua estetica. «Tentare di fermare le stragi di ragazzi a Harlem non sarebbe stata un’avventura giornalistica in più da inserire nel curriculum. Sentivo ancora vivo in me il tormento che la morte dei miei amici aveva lasciata sulla mia infanzia. Adesso avevo finalmente l’opportunità di fare davvero qualcosa», così scriveva Parks di quando Life gli affidò l’incarico di fotografare quel barile di polvere pronto a scoppiare che era il quartiere nel 1948. Ecco che le fotografie prendono la forma del poema in prosa: ogni immagine è compiuta, ma è in dialogo con le altre in una sequenza narrativa che sembra evolvere negli anni, modulando sempre di più i rapporti tra le riprese fotografiche a prospettiva lunga e le immagini a primo piano, le situazioni contestualizzate a media distanza e alcuni oggetti o forme isolati ripresi come elementi simbolici. Ecco le grandi cerchiature di nero che predominano nei lavori dei primi anni, dal Quaranta sino alla fine degli anni cinquanta e che sembrano rivelare le cose attraverso squarci violenti della superficie fotografica, come se fosse in gioco la lotta interiore di Parks stesso. Ecco le partiture progressive su scenari più ampi che si sciolgono via via in immagini più composte e narrativamente più complesse. Ecco, allora, che ogni racconto presenta una cifra stilistica.

Ella Watson (1942) è una texture di grigi, Harlem, gang leader (1948) è il contrasto tra il buio e la luce, tra il privato e lo scontro freddo della strada, Segregazione nel Sud (1956) è un colore pastellato che stride con le barriere razziali, reali e simboliche che attraversano tutto il racconto, Ford Scott revisited (1949) è un via vai tra interni e strade, tra sineddochi e ritratti, tra strade desolate e stanze claustrofobiche, Crime (1957) ha una straordinaria qualità pittorica vicina a quella di Saul Leiter che addolcisce gli squarci stretti su prospettive lunghissime, Mohamed Ali (1966-1970) come The black Panthers (1970) presentano una perfezione narrativa esemplare, tipica di coloro che arrivati alla maturità espressiva sanno cogliere il nucleo espressivo delle persone che fotografano. Che per Gordon Parks la macchina fotografica sia stata l’arma con la quale ha combattuto la sua battaglia è evidente soprattutto nel lavoro che fece nel 1963 sui Black Muslims quando Malcolm X, pochi anni prima del suo assassinio, sembrava prendere il sopravvento sull’indiscusso potere di Elijah Muhammad.

Insieme a Ingrid Bergman
Le contraddizioni e la tensione che serpeggiavano nel movimento sono ancora oggi tangibili nel lavoro di Parks, così come è palese la sua disapprovazione verso le riunioni paramilitari del movimento che si manifesta con riprese ironiche e distanti. Gordon Parks aveva imparato la lezione che gli aveva impartito Roy Stryker (il responsabile della Farm Security Administration) quando per primo lo aveva coinvolto come fotografo nella campagna documentaria. «Devi trasformare i tuoi sentimenti in parole e poi trovare il modo di metterli nelle fotografie», gli diceva. Che ci fosse riuscito ne è prova la vicenda del servizio su Ingrid Bergman nel 1949. Fu lei a convocarlo a Stromboli dove stava vivendo la sua grande storia d’amore con Rossellini. Condannata dall’opinione pubblica, Bergman individuò nel lavoro di Parks l’occhio che avrebbe saputo cogliere e mostrare la pace e la serenità di una relazione lontana dalle tempestose vicende che invece la stampa andava ricamando. L’attrice gli mostrò il numero di Life sul quale Parks aveva pubblicato il servizio sul giovane leader della gang di Harlem. Gli fece molti complimenti e concluse: «Immagino che quel ragazzo si sia fidato di te». Parks ribatté: «Diciamo che ci siamo fidati l’uno dell’altro». Uno scambio che mette a nudo l’importanza della relazione nel suo lavoro. Il che implica evitare ogni iperbole formale, anche e soprattutto quando la situazione ne offre ampie opportunità.

Queste storie e queste frasi sono tutte nella bella mostra allo Spazio Forma. Il percorso è ritmato da citazioni tratte dai libri di Gordon Parks e presenti nel catalogo, le stampe, vintage e moderne offrono una panoramica complete del lavoro fotografico: dai servizi impegnativi sulle zone calde della segregazione razziale ai ritratti di artisti e politici, dalla moda fatta per Vogue per finire con il servizio a colori The learning Tree del 1963, una fiction autobiografica sulla propria infanzia.