Selma, con due nomination agli Oscar e quattro ai Golden Globe è stata la consacrazione critica di Ava DuVernay, regista che ha iniziato la carriera come giornalista della Cbs News, inviata a seguire il processo OJ Simpson. In seguito la quarantacinquenne DuVernay è approdata ai documentari e al cinema di finzione. Il secondo lungometraggio Middle of Nowhere la vede già vincitrice al Sundance, prima afroamericana premiata come migliore regista a Park City.

Eloquente portavoce dei diritti civili e delle donne, è fra le principali esponenti dell’attuale revival del cinema nero. La narrazione dell’esperienza  afroamericana la porta al sodalizio creativo con Oprah Winfrey, matriarca dei media Usa, produttrice e magnate della cable tv col canale Own, per cui DuVernay è regista di una nuova serie – Queen Sugar – feuilleton southern gothic su una dinastia afroamericana di coltivatori di zucchero in Louisiana.
Una prima esperienza di fiction seriale che coincide con la recente uscita  su Netflix di  13th, il suo documentario  sull’abrogazione della schiavitù in America salvo, come specifica il tredicesimo emendamento, come punizione di un crimine.   Una denuncia (cui partecipa tra gli altri Angela Davis) delle radici storiche e dell’applicazione politica di un complesso industriale-carcerario che perpetua la discriminazione e la sottomissione razziale.

La sua famiglia viene dall’Alabama.
Io vivo a Los Angeles ma tutti i miei parenti vivono ancora a Montgomery. È una vecchia storia: i neri sono fuggiti dal Sud negli anni ’50 e primi ’60, durante la cosiddetta grande migrazione verso il Nord e l’Est. Scappavano dai linciaggi, dalle leggi Jim Crow, la segregazione e la violenza. È stata una diaspora per la sopravvivenza che ha spaccato molte famiglie.  Queen Sugar è legato a questa vicenda, punta alla rappresentazione dell’esperienza afroamericana.

Dopo «Selma», «Queen Sugar» è un’ altra ambientazione sudista.
Il fatto stesso che io possa sedermi in questo albergo, a questo tavolo, non sarebbe stato possibile appena cinquant’anni fa. Sarei dovuta entrare dalla porta di servizio o avere dei permessi speciali. Il fatto che tutto questo sia cambiato è riconducibile al Sud, alle lotte per la libertà che avvennero laggiù, nell’epicentro dei linciaggi, della violenza contro la nostra gente. Ma allo stesso tempo è un luogo affascinate e bellissimo, intriso di ospitalità sudista.

Lei è stata una giornalista. Un’esperienza utile?
Ho fatto altri film prima di Selma, compresi tre documentari. Sento ancora il bisogno di raccontare storie in modo giornalistico e la forma documentaria mi ha sempre attratta. Credo anche che sia possibile combinare i generi, usare gli strumenti narrativi per giungere alla verità di una particolare storia.

Come  in «13th»?
13th parla dei diritti di cui le persone vengono private anche dopo aver pagato il loro debito con la giustizia. È uno stigma che rimane per sempre. Ogni volta che fai domanda di lavoro sei tenuto a dichiarare di aver commesso un reato. In molti stati perdi per sempre il diritto di voto.

Anche «Queen Sugar» ha un sottotesto politico.
Attraverso la storia di un personaggio, Ralph Angel,  esploriamo le tematiche legate alla proprietà terriera delle persone di colore in questo paese, il fatto che per centinaia di anni è stato un reato il semplice fatto di vivere liberi. In alcuni stati del Sud, per esempio, alle donne nere era vietato mettere lo smalto alle unghie, perché si diceva che volessero somigliare troppo alle bianche. Sono temi che in una fiction narrativa emergono in modo più emozionale.

Al National African American Museum di Washington c’è un altro suo film, «The 28th».
L’ho girato per lo Smithsonian e tra sei episodi importanti nella storia afroamericana, tutti avvenuti il 28 agosto di diversi anni. Ad esempio fu in quel giorno che venne ucciso Emmett Till, un delitto «fondativo» del movimento per i diritti civili. Il 28 agosto ’63 Martin Luther King pronunciò  il famoso discorso «I Have A Dream». Nello stesso giorno in anni diversi l’uragano Katrina colpì New Orleans – provocando un disastro in gran parte afro americano – e il senatore Barack Obama accettò la nomination a presidente.

Fra poco ci sarà invece l’inaugurazione di Donald Trump.
Con lui sono in pericolo molte libertà per cui sono morte tante persone in questo paese, e che mi riguardano direttamente  come donna e come persona nera. Inoltre è doloroso e triste che la gente possa pensare che è questo che l’America crede davvero.