Che Donald Trump potesse diventare il presidente degli Stati uniti non ci credeva nessuno. Esperti, giornalisti pronunciandone il nome trattenevano a stento una risata. E gli elettori democratici erano sicuri di festeggiare la vittoria di Hillary Clinton, la prima presidente donna che a dirlo le elettrici si commuovevano. Non è andata così: il 9 novembre 2016 il tycoon mediatico è diventato il 45° presidente americano. Ma è stato davvero solo un «imprevisto»? O questa vittoria era annunciata nella trama di un Paese che si rappresenta come il più potente al mondo, garante della sua «democrazia», e invece è attraversato da miseria, disparità sociale, e dallo scollamento tra la «Politica» e i cittadini – segno del nostro tempo?

A questo cerca di rispondere Michael Moore in Fahrenheit 11/9.Presentato alla Festa di Roma, poi in sala come evento dal 22 al 24 ottobre per Lucky Red,  è un film in cui il regista, ormai figura pubblica e interlocutore di riferimento per le voci del dissenso, mette da parte l’onnipresenza programmatica dei precedenti – tipo Sicko – riuscendo anche con dolorosa ironia a rivelare il sentimento contraddittorio di ingiustizie e lacerazioni dell’America oggi.

Perché Trump, candidato alla presidenza per caso – voleva più soldi da Nbc dopo avere scoperto che Gwen Stefani era pagata meglio di lui e invece la rete lo ha licenziato per insulti razzisti – non arriva dal nulla ma inizia negli errori degli altri, i democratici per primi incapaci di sintonizzarsi con la realtà e di dare le risposte necessarie al loro elettorato. Suona familiare no? Pensando a casa nostra,il Pd, le sue liti interne, quel ciclico «torniamo alle periferie».

SE HILLARY specie su Fox viene costantemente attaccata dai conduttori maschi – peraltro tutti accusati di molestie – è anche vero che manda sagome di cartone di sé negli stati con più problemi. Lui, invece, il biondo ossigenato miliardario accarezza le folle col suo parlare diretto in cui snocciola i suoi soldi promettendo di fare l’America di nuovo grande. È maschilista, sessualmente aggressivo, Moore adombra (un po’ una scivolata) persino una relazione incestuosa con la figlia (amatissima) Ivanka – certo un padre che alla domanda: «Cosa farebbe con sua figlia?» risponde: «Sesso» fa strano – alla cui immagine si sono adattati i vari botox di tutte le altre (sue donne).

PERÒ la promessa di «fare l’America grande» l’aveva già sbandierata il democratico Clinton favorendo finanza e multinazionali. E alle primarie per queste presidenziali il partito democratico ha ignorato le indicazioni di voto – in molti stati aveva vinto Bernie Sanders – truccando i risultati a favore di Hillary. I ragazzi di Bernie avevano le lacrime agli occhi – giovanissimi pure se il «New York Times» aveva detto che il suo elettorato era composto unicamente da babbioni. In molti dopo quella decisione hanno smesso di votare.

LO STESSO dolore appare ancora oggi quando parla di Obama sul volto di una delle attiviste contro l’avvelenamento dell’acqua a Flint, la città del regista, provocato dall’avidità corrotta del governatore (repubblicano) Rick Snyder – tuttora in carica. Il quale per favorire i propri interessi e quelli degli investitori che avevano pagato la sua campagna, dopo avere usato l’«emergenza» per eliminare i sindaci ha deciso di costruire un nuovo (e inutile) acquedotto. Solo che questa «grande opera» ha obbligato a prendere l’acqua per gli abitanti – quelli poveri ovvio, gli african american soprattutto – invece che dal lago cristallino dalla fogna del fiume. Per primi di sono ammalati i bambini, poi gli adulti, si muore di legionella, nel corpo tutti hanno il piombo con danni irreversibili. L’acqua buona l’hanno rimessa ma alla General Motors visto che quella cattiva corrodeva i loro materiali.

E Obama? Lo aspettavano come il messia, lui arriva e si fa dare un bicchiere di acqua, la beve sereno. Una scenetta a favore del corrottissimo Snyder. La dottoressa che cura i piccoli dice: «Sono arrivata qui coi miei genitori pensando al sogno americano, per questi bimbi è diventato un incubo».

MOORE cerca risposte, analogie nella storia, lampi di futuro. Dove ricominciare? Dal basso, per esempio, dai movimenti, dai giovani democratici che si oppongono ai «baroni» e che vogliono un programma che sia democratico – nella sanità, nell’istruzione, nella vita – come Alexandra Ocasio-Cortez. Dagli insegnanti della Virginia che insieme a autisti e cuochi sono riusciti a ottenere – contro il sindacato che li aveva svenduti – l’aumento del salario facendo dilagare la protesta in tutto il Paese.

DAGLI ADOLESCENTI di #Never again, sopravvissuti al massacro nel liceo di Parkaland, in Florida, che alla frase di rito «pensieri e preghiere per le vittime» hanno opposto l’azione: un movimento contro le armi in America che ha portato migliaia di persone in strada, per lo più giovanissimi, nella March For Our Lives. Sanno inchiodare i politici (come Marco Rubio) con domande dirette: «Si farà pagare la campagna dalla NRA? (la potente lobby delle armi, ndr)». Silenzio. Per loro la sola la risposta di Trump è l’insulto : «Una lesbica» dice sprezzante a Emma Gonzalez, figura iconica del movimento che parlando sul palco dei suoi compagni che non rivedrà più denuncia il culto della armi che deve finire per sempre.

Sono frammenti, segnali di una possibile resistenza, all’America di Trump che non è solo lui ma che è diventato già un sentire comune. Razzismo, aggressioni, tutto ciò che il linguaggio della politica ha affrancato – con gli insulti del presidente a migranti e african american – si fanno gesto quotidiano. Mentre i media vengono liquidati come «fake news», messi a tacere, col presidente che rifiuta ogni contraddittorio cacciando chi fa domande. Anche questo ricorda qualcosa? Magari gli ultimi mesi italiani in «gialloverde»? Film di necessità, come tutto il cinema di Moore, Fahrenheit 9/11 si presenta anche come una riflessione – profonda sul presente – che dalla storia americana si allarga al mondo, ai conflitti e alle necessità di un agire comuni a tutti.