Con uno scatto di saggezza, Nicolas Maduro ha evitato di impugnare la sentenza della Corte suprema di Caracas che gli permetteva di esautorare il parlamento dove l’opposizione è maggioritaria.

Il contesto internazionale, le possibili reazioni di Washington, i consigli di prudenza venuti da Cuba devono aver fatto riflettere il presidente del Venezuela sul pericolo di una cruenta guerra civile. E’ stata una scelta sensata.

Dal 1999 – quando Hugo Chávez vinse per la prima volta le elezioni – il chavismo ha proceduto con metodo democratico, accettando sempre l’esito delle urne, anche nel 2007 quando fu bocciata in un referendum la riforma costituzionale. Il chavismo senza Chávez, morto nel 2013, è però in crisi dopo aver accumulato successi nella redistribuzione del reddito, nella sanità pubblica, nell’istruzione, nella spinta a nuove forme di unità latinoamericana (il progetto dell’Alba, la tv Telesur).

Oggi a Caracas l’inflazione non ha freni e viaggia oltre il 500%. Mancano inoltre i generi di prima necessità a causa del basso prezzo del petrolio ma anche per le difficoltà di scelte economiche alternative. I sondaggi dicono che Maduro forse perderebbe nuove elezioni presidenziali.

Allarghiamo lo sguardo.

Novità progressiste, accanto ad altre dichiaratamente di alternativa, si erano concentrate da qualche anno in America Latina. Con poche eccezioni (Messico, Colombia), i risultati delle elezioni registravano il prevalere dello spostamento a sinistra dell’orientamento dei singoli governi. E’ stato così in Brasile, Venezuela, Cile, Argentina, Bolivia, Uruguay, Nicaragua, Ecuador.

Mentre nell’ultimo quindicennio la sinistra variamente intesa arretrava in Europa, in America latina mieteva successi come mai prima era avvenuto. L’ex metalmeccanico Lula vinceva le elezioni presidenziali in Brasile nel 2002. Poi Nestor Kirchner in Argentina, Evo Morales in Bolivia, Rafael Correa in Ecuador, Daniel Ortega in Nicaragua (dove però poco o niente è rimasto del sandinismo), José Mujica in Uruguay. Tornava alla presidenza Michelle Bachelet in Cile e perfino il Paraguay conosceva una stagione progressista mentre si avviavano trattative di pace tra governi e guerriglie in San Salvador, Guatemala e Colombia.

Prendeva corpo di conseguenza una nuova spinta verso la cooperazione latinoamericana. A favorire questa stagione era una crisi economica meno forte che in Europa e Stati uniti, l’allentamento della tradizionale pressione politica di Washington impegnata nella lotta al terrorismo, il fallimento degli esperimenti neoliberisti, la richiesta di una alternanza nelle leadership di governo, il bisogno di pacificazione.

Il ciclo del cambiamento si sta ora esaurendo.

Prima la vittoria della destra in Argentina con Mauricio Macri, poi il golpe istituzionale in Brasile che ha portato all’impeachment contro la presidente Dilma Roussef, poi ancora le notizie che giungono dal Venezuela.

Difficoltà si registrano pure nelle esperienze di governo di Cile e Bolivia. La sinistra di Lenin Moreno ha vinto di un soffio le presidenziali dell’altro giorno in Ecuador. Destra all’attacco in Perù e Colombia. Solo Cuba sembra salda, pur alla ricerca del rinnovamento del proprio modello economico e politico.

Come si spiega l’impasse degli esperimenti progressisti?

Bisogna dirlo chiaramente: non è colpa solo dell’imperialismo – per schematizzare – quello che accadendo a Caracas ed è accaduto a Brasilia. Destra e potentati economici fanno il loro mestiere e cercano la rivincita. Sarebbe tuttavia un errore pensare che non ci siano debolezze e contraddizioni nel seno stesso delle esperienze progressiste.

Se il Venezuela è allo stremo di una crisi economica lacerante e in Brasile si è formata in parlamento una maggioranza anti-Roussef, le responsabilità non sono solo “esterne”.

Il chavismo bolivariano, dopo la scomparsa di Chávez, ha perso smalto e progetto.

In Brasile la corruzione si è insinuata nelle file del Partito dei lavoratori.

Gli esperimenti progressisti e di sinistra si sono impantanati nella difficoltà di costruire alternative al “capitalismo estrattivo” (petrolio, gas) e di inventare nuove forme di partecipazione democratica.

Nell’ultimo biennio sono nel frattempo giunti al pettine i tradizionali problemi dell’America latina: debolezza dei partiti e della democrazia, composizione sociale non strutturata, nuova classe media non rappresentata, destra sempre in agguato che gioca sulle promesse facili, economia dipendente dall’esterno e dagli Stati Uniti, populismi di destra e di sinistra.

Bisognerà ripartire da qui. Facendo tesoro di successi ed errori.