Ricco parterre di esperti all’Istituto Sturzo per il convegno «Da Puebla ad Aparecida, Chiesa e società in America latina (1979-2007)». Le due giornate di studio e di confronto, patrocinate dall’Ila e organizzate dall’Istituto San Pio V, hanno aperto un percorso di studi, diretto da Antonio Iodice, sul «laboratorio» latinoamericano: che si proietta sull’Europa anche a partire da alcune priorità indicate dal papa Bergoglio, «soprattutto quella della pace, della riconciliazione e del contrasto a ogni forma di violenza».

Dopo gli interventi istituzionali (il viceministro degli Esteri Mario Giro), le conferenze generali dell’episcopato latinoamericano di Puebla e di Aparecida hanno inquadrato il travaglio della chiesa nel secolo delle rivoluzioni, e le sfide nel nuovo millennio. Si è parlato della questione indigena (Massimo De Giuseppe), della violenza (Gianni La Bella), delle lunghe transizioni dopo le dittature (Marco Gallo), di pluralismo religioso e pentecostalismo (René de la Torre), della stagione delle sinistre post-rivoluzionarie (Ugo Pipitone), di teologia del popolo (Carlos Galli), e dei cristiani in Argentina (Miranda Lida).

Nell’impostazione generale, un discutibile filo di continuità tra le politiche vaticane al tempo di Karol Wojtyla, della guerra al «pericolo rosso» e della scomunica ai preti «comunisti», e quelle del Bergoglio delle «3 T» (tierra, techo, trabajo), del dialogo inter-religioso e della critica al modello capitalista.

Ne abbiamo discusso con il teologo argentino Lucas Cerviño, dell’Università Cattolica di Bolivia, che ora vive in Messico, e che ha tenuto una conferenza intitolata «La Chiesa e la crisi ecologica».

Qual è il rapporto che la chiesa di Bergoglio può avere con le società latinoamericane di oggi?

Intanto ascoltare l’allegria e la sofferenza del popolo, ascoltare sempre il grido del povero e del popolo e riportarli in una Pastorale che tenga conto delle necessità concrete delle singole società e del continente. Una preoccupazione presente nella conferenza di Medellin, nel Concilio Vaticano II, e nelle distinte fasi e versioni della Teologia della liberazione. Francesco ne ha raccolto l’eredità e ha collocato nell’esercizio universale della Chiesa le tematiche attualizzate in alcuni paesi del continente latinoamericano.

Questo papa parla apertamente di critica al modello capitalista e alla logica del denaro, e mostra su molti temi un approccio diverso dai suoi immediati predecessori. Per lei c’è continuità o discontinuità con il pontificato di Wojtyla?

Vi sono indubbiamente molte differenze. Il papa polacco era condizionato dalla sua esperienza con il comunismo sovietico, e l’ha proiettata nella ricerca della verità, e sulle scelte diplomatiche compiute a livello internazionale. Francesco viene dall’America latina, da un’opzione vicina alla classe povera, e dunque anche a quella parte della Teologia della liberazione che ha sviluppato una teologia del popolo senza però cedere alle categorie marxiste, che hanno spinto molti sacerdoti latinoamericani del secolo scorso anche a scelte estreme. È un papa figlio del suo continente e parla di quel contesto, per questo a volte in Europa viene interpretato male.

Nella sua crociata contro il comunismo e contro i teologi della liberazione, il papa polacco ha imposto nuove gerarchie e nuove relazioni fra società latinoamericana e chiesa. Quanto hanno inciso queste decisioni nell’avanzata delle altre religioni nel continente?

Penso che abbiano influito. Certi gruppi religiosi hanno una struttura gerarchica più liquida – per dirla con Bauman – che consente loro una discussione più ampia. Per questo, Francesco, pur riprendendo la critica a quanti hanno privilegiato la dimensione della trasformazione sociale su quella della vicinanza spirituale, attacca i vescovi «da tavolino» e quel cattolicesimo di comodo che è convinto di avere il monopolio perché gestisce uno spazio vicino al potere. Francesco predica la vicinanza del pastore al povero. E incontra anche sorde opposizioni. Per questo, nonostante sia da vescovo che da cardinale abbia avuto anche divergenze con la Compagnia di Gesù, quando è stato eletto vi ha cercato appoggio: necessitava di un esercito nel mondo per la sua riforma, ha cercato il sostegno di Civiltà Cattolica e di altri spazi che avessero un’analoga riflessione e un orientamento. Ma ha compiuto molti gesti significativi. Nel suo viaggio in Bolivia, non ha seguito le indicazioni della Conferenza episcopale. Scartando dal protocollo, si è fermato a pregare nel luogo in cui è scomparso il gesuita «rosso» Luis Espinal, torturato e ucciso dalla dittatura.

Per i 200 anni dell’indipendenza argentina, Bergoglio ha inviato un messaggio sulla Patria grande e sull’integrazione latinoamericana. È corretto parlare di un papa bolivariano?

Sì, è un papa che crede nell’integrazione latinoamericana, che per la prima volta ha portato all’attenzione del mondo questi contenuti. Potrei dire che è un papa peronista per la sua geniale capacità di instaurare una relazione diretta con il popolo, ascoltandone le esigenze reali, unendosi ai movimenti popolari per chiedere casa, terra, lavoro, e con questo tornare allo spirito della conferenza di Medellin.

L’Enciclica Laudato si’ esprime posizioni radicali, ma uno dei consiglieri del papa è stato il cardinale honduregno Oscar Maradiaga, non proprio un progressista…

Le tesi contenute nell’enciclica Laudato sì’, riprendono con altre parole quelle espresse dal teologo della liberazione brasiliano Leonardo Boff nel 1992: intendere sia il grido del povero che quello della terra, nel senso di un’ecologia sociale molto sentita in America latina, che considera inseparabile il tema della terra e della crisi ecologica da quello della povertà e dello sfruttamento. Uno schema che mette in causa il modello socio-economico-culturale, il modello capitalista. Per questo, più che un’enciclica verde, sembra un’enciclica rossa, o rosso-verde. Però questo è tipico di una certa tradizione latinoamericana, che ha una coscienza forte della crisi ecologica e che si è nutrita in questi anni di vari contributi, come quello del Movimento dei Sem Terra brasiliani. Ultimamente c’è stata una interessante decisione del Pontificio Consiglio di Giustizia e Pace: l’istituzione di una Rete Panamazzonica che include laici e religiosi per lavorare insieme a difesa dell’Amazzonia. Il pontefice ha inviato una lettera che ha aiutato a superare i particolarismi e le piccole contese territoriali in vista di un modello alternativo a difesa del povero: perché se si vuole proteggere la biodiversità si deve tutelare la socio-diversità. Io credo in una teologia del dialogo interculturale: dialogo e non colonizzazione culturale. Ho vissuto a lungo in Bolivia. Considero fondamentale l’apporto dei popoli indigeni alla questione ecologica. Penso che la chiesa debba aprirsi di più alla grande sapienza indigena per avere il giusto atteggiamento rispetto all’ambiente. Il cammino è aperto, ma per ora Francesco è ancora troppo condizionato dalle sue radici europee. Occorre recuperare di più la dimensione meticcia e indigena per sviluppare una proposta ecologica alternativa.

Per Donald Trump la crisi ecologica non esiste. Come reagisce la chiesa di Bergoglio a questo presidente Usa?

Io vivo da qualche mese in Messico, dove c’è un sentimento di grande incertezza: si parla di muri, espulsioni, chiusure. È prematuro avere una idea precisa, ma è chiaro che ci sarà un cambio di orientamento e occorre difendere la sovranità del continente. L’America latina ha però acquisito una forte coscienza della propria identità, il popolo oggi ha un maggior senso di appartenenza.

La chiesa di Bergoglio farà passi avanti anche in tema di genere?

Francesco ha creato una commissione di 8 teologi e teologhe per discutere il tema dell’ordinamento di diacone, com’era nella chiesa primitiva e com’è in altre chiese non cattoliche. Ma è all’ascolto anche di altre correnti interessanti di teologia eco-femministe come quella che propone la brasiliana Ivonne Gebara. La teologa ha scritto un articolo molto critico dell’enciclica Laudato si’ sostenendo che è ancora troppo patriarcale e antropocentrica. La sfida che l’eco-femminismo rappresenta nella chiesa è forse ancora più profonda di quella della Teologia della liberazione. Il ruolo della donna è fondamentale, aiuta a posizionarsi nella spiritualità a partire da sé, dalla necessità di assumere la nostra dimensione complementare del maschile e del femminile. La donna deve avere più spazio di decisione. Per esempio, nel Concistoro che elegge il Papa dovrebbe esserci anche un gruppo di donne. Su questo, Francesco ha una grande disponibilità.

Da Cuba alla Colombia al Venezuela, Bergoglio sembra a volte eccedere la stessa diplomazia del Vaticano…

Francesco sta mettendo in atto un nuovo paradigma. Ha una capacità dialettica che sconcerta, parte da una scelta umanista e inclusiva, che mira a raggiungere il consenso anche se ci vuole più tempo. Conosce l’America latina, sa che il popolo poi fa comunque le sue sintesi, trova i suoi meccanismi per sopravvivere. Francesco arriva al cuore di quelle esigenze e le presenta attraverso la fede