Le tre ore scarse della visita lampo della cancelliera Merkel a Washington e il breve incontro con Donald Trump sono in stridente contrasto con l’elaborato rituale dell’accoglienza riservata nella stessa giornata a Pechino da Xi a Modi. I leader dei due paesi principali e storici alleati dell’Occidente faticano a ritrovare un linguaggio comune e, per evitare spiacevoli fuori programma, sempre in agguato con un presidente come Trump, limitano al necessario la durata dei colloqui, ed ecco, invece, che i capi dei due giganti asiatici, rivali storici, con contenziosi rilevanti ancora aperti, trovano il modo di dialogare e di esibirsi di fronte a tv e fotografi in atteggiamento disteso e amichevole.

Dando mostra che, come scrive, il Quotidiano del popolo, «gli interessi comuni di Cina e India superano di gran lunga le loro differenze». Già, gli interessi comuni. Come quelli che spingono le due Coree a trattare, ai massimi livelli, fino a intraprendere la via verso il disarmo della penisola. Gli interessi comuni che l’Occidente sta smarrendo, se mai li ha avuti davvero, essendo infatti soprattutto interessi americani.

E che, invece, in Asia, i massimi protagonisti sulla scena stanno scoprendo, come in un’inedita consapevolezza del proprio peso e ruolo e della possibilità concreta di essere loro oggi i protagonisti veri sul pianeta. Naturalmente, in quel contesto c’è anche la Russia, potenza europea che arriva fino a Vladivostok, amica storica dell’India ma sempre più alla ricerca di una relazione produttiva con Pechino. È un nuovo ordine che si sta delineando, pur tra tante contraddizioni, e che si basa sullo spostamento progressivo, e sempre più veloce e intenso, del centro di gravità del mondo verso l’Oriente e l’Estremo Oriente.

Donald Trump cerca spazio in questo processo in corso, con un gioco tattico scoperto d’interdizione alternato ad aperure dialogiche, cercando di volta in volta di trovare una sponda, a Seoul, a Tokyo, a New Delhi, nel tentativo di agire sulle rivalità storiche che hanno finora impedito all’Estremo Oriente – di gran lunga l’area del mondo più popolosa e più potente – di avere quel ruolo planetario commisurato al suo peso reale che oggi rivendica (i famosi interessi comuni.)

Da tempo, non solo con quest’amministrazione, l’America guarda verso Oriente, con un disimpegno crescente da altri quadranti, come quello mediorientale, e con un disinvestimento politico, esplicito in Trump, verso l’Alleanza atlantica. La partita si gioca nell’Oceano Indiano e nell’Oceano Pacifico. E vede la Cina come principale giocatore, la potenza economica già in grado adesso di scalzare dal primato gli Usa. C’è da chiedersi perché Trump proceda da solo in questa confrontation estremorientale e perché, da parte sua, l’Europa si presenti su quel fronte non solo disgiunta da Washington, ma in ordine sparso.

Non si vede un calcolo, s’intravede piuttosto la rassegnazione, da parte dei paesi e delle potenze dell’Occidente che ha dominato il mondo nell’Ottocento e nel Novecento, di doversi acconciare a trovare, ognuno in proprio, una relazione privilegiata con i nuovi padroni del mondo che salvaguardi lo status e il benessere raggiunti. Lo stesso Trump fa il duro, flette i muscoli, ma è il primo a sapere che nel futuro c’è la Cina, l’India, la stessa Russia, e sempre meno l’America. Che più dell’Europa forse può interagire con i paesi asiatici, per via della sua potenza militare e per la sua forza nel campo dell’industria dell’intelligenza. Ma ormai può solo sperare di farlo, al massimo, da partner paritario, non più da numero uno.