Oggi, tutte le strade portano a I cancelli del cielo. Non solo perché, sabato, verso l’una del pomeriggio a Los Angeles si è sparsa la voce che era morto Michael Cimino. Ma perché, in quel suo grandissimo film su cui è infranto il magnifico sogno della Nuova Hollywood sta (anche) l’America di questo momento – un gruppo di uomini bianchi, armati fino ai denti decisi a fermare il futuro, il diverso, a qualunque costo.

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E perché questo è il week-end in cui gli States festeggiano la loro Indipendenza. Imprescindibile vocazione americana, che Cimino ha raccontato con amore e sapienza quasi unici (Griffith, Hawks, Ford, Eastwood e pochi altri si sono spinti così vicino alla sua essenza e alle sue contraddizioni), in tutti i suoi film e che, in quanto artista, gli è costata tutto.

Scomparso a settantasette anni, ci lascia solo sette film – un’ingiustizia con cui è impossibile riconciliarsi.

Anche guardandoli e riguardandoli all’infinito perché, ogni volta, sembrano sempre più belli, profondi e intrattabili.

Il grande tema dell’America è quello dello spazio, diceva spesso Cimino, citando il poeta Charles Olson nel suo saggio su Moby Dick (uno dei libri favoriti di un regista che aveva un rapporto intensissimo con la letteratura).

E il grande paesaggio americano –geografico, storico ed emozionale- è il tema di tutti i suoi film.

Dalle montagne maestose e cristalline del Montana sul cui sfondo è ambientato il suo primo lavoro, Una calibro 20 per lo specialista, prodotto da e con Clint Eastwood, a quelle dove Robert De Niro, dal sanguinario ricordo nella guerra, si rifugia nello sguardo maestoso di un cervo, in Il Cacciatore, alle high sierras dell’Arizona, dove gli spiriti dei native Americans sopravvivono indisturbati,  e in cui va a morire il protagonista del suo ultimo “western”,  Verso il sole.

E’ un rito indiano dei morti che gli ho sentito raccontare, a Venezia, nel 2003 (dove venne per presentare il suo romanzo, Big Jane), a due giovanissimi attori, Bijou Phillips e Nick Stahl, che non avevano mai visto Il cacciatore o I cancelli del cielo, e che lo guardavano a bocca aperta, appesi ad ogni parola: “non finirò mai sotto terra, ma lascerò che il mio cadavere venga divorato dagli uccelli, sugli alberi del mio ranch in Montana”.

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Perché Michael Cimino era una fonte inesauribile di storie, che raccontava con l’entusiasmo innocente di un bambino e la saggezza diabolica di un vecchio stregone.

“La” storia in cui, purtroppo, rimase intrappolato per sempre è quella de i I cancelli del cielo, il suo capolavoro ispirato da un feroce episodio della storia Usa, avvenuto nel 1892, e in cui i ricchi proprietari di bestiame della Wyoming Stock Growers Association, con l’appoggio sotteso del governo federale, assoldarono un’armata di miliziani del Texas per massacrare un gruppo di pionieri (in gran parte immigranti dell’Europa dell’Est) sospettati di rubare capi dalle loro foltissime mandrie.

Cimino ha spesso paragonato quegli eventi a un “genocidio bianco”.

Ma quando il suo film uscì nelle sale americane, nel novembre del 1980, i critici citarono a malapena la sua esplosiva presa di posizione politica, troppo occupati a fare a pezzi la sua altrettanto esplosiva ambizione.

Fresco dal successo critico, di pubblico e dai cinque Oscar di Il cacciatore, Cimino aveva infatti avuto carta bianca dalla United Artists per il suo prossimo progetto. Che, dopo aver esplorato instancabilmente gli States e il Canada, alla ricerca di un paesaggio sublime “sui cui nessuno avesse mai posato lo sguardo”, e che incarnasse la maestosa, durissima, promessa del West, Cimino girò tra Idaho e Montana, costruendo dal nulla una cittadina di pionieri, nel cuore del Glacier National Park. Su una piattaforma alta un metro per non danneggiare l’erba pristina del parco.

 

Undici mesi di lavorazione, un budget (allora astronomico) di quaranta milioni di dollari, la struttura narrativa rivoluzionaria rispetto alle convenzioni drammatiche hollywoodiane e, soprattutto, il suo sguardo immenso e cupissimo sul mito della Frontiera USA, I cancelli del cielo arrivò nei cinema insieme alla presidenza ottimista di Ronald Reagan. Un’inattualità e un controsenso imperdonabili, come l’arditezza del gesto.

Al suo clamoroso flop finanziario venne attribuito il fallimento della United Artists, la Major di Chaplin, Pickford e Fairbanks. Un danno, quindi, alla macchina finanziaria del cinema–cosa imperdonabile anche quella.

Ricordo, quando ho conosciuto Cimino, nel 2000, lavorando a un libro su Clint Eastwood, che i collaboratori di Clint parlavano di lui con difficoltà, imbarazzo – come di un talento specialissimo, che però – in nome del suo film – aveva osato mettere a repentaglio la sopravvivenza di un’intera industria.

E’ quell’irriverenza sublime, del DNA, che face di lui un paria a Hollywood, non le feroci e divertentissime dichiarazioni contro l’industria, con cui, come un genio in esilio, specie in questi ultimi anni, deliziava le platee europee che l’hanno amato fin dall’inizio. Ho sempre pensato che, per lui, ognuna di quelle frecciate, fosse un piccolo squarcio in più nell’enorme ferita che lo separava dalle cose che amava maggiormente, l’America e il suo cinema.

Nel 2012, quando l’etichetta DVD Criterion decise – con il sostegno e la collaborazione di Cimino – di restaurare la versione integrale di I cancelli del cielo, mi chiesero di scrivere un saggio perché non trovavano un critico americano che amasse il film. Una cosa paradossale.

Presentato alla Mostra del cinema di Venezia, e poi al New York Film Festival, a trentasei anni dalla prima uscita, quel restauro ha riaperto il dibattito su I cancelli del cielo. E, dopo la distribuzione – in sala e in DVD – anche qui alcuni hanno cominciato a parlare di capolavoro incompreso. Tragicamente troppo tardi. R.I.P Michael.