Come George A. Romero qualche anno prima, Tobe Hooper ha riscritto le regole del nuovo horror statunitense con Non aprite quella porta (The Texas Chainsaw Massacre). E per sempre il nome di Hooper è rimasto legato indissolubilmente alle gesta di Leatherface e della sua orrida (ma simpaticissima…) famiglia.
Hooper veniva dal movimento contro la guerra in Viet-Nam. Non gli piaceva la direzione nella quale andava l’America. Lui, professore e aspirante documentarista, texano purosangue di Austin, ispirandosi alle gesta di Ed Gein (già «modello» per Psycho di Alfred Hitchcock) mette insieme con studenti e colleghi, fra i quali Kim Henkel, il cast e la troupe per quello che sarebbe stato il suo film definitivo. Oggi, probabilmente, si fa fatica a immaginare l’impatto devastante che ebbe sulle masse inermi e impreparate degli spettatori nel lontano 1974.

Non aprite quella porta, il cui simbolo era, è e sarà il massiccio Leatherface interpretato da Gunnar Hansen (scomparso nel 2015), simbolo secondo Robin Wood dell’horror nuovo e politico (il critico lo opponeva in un confronto impietoso a Il presagio di Richard Donner), ha sempre dovuto lottare con(tro) il successo e la radicalità del suo film.
Fiumi d’inchiostro  sono stati versati per raccontarne la straordinaria potenza e la carica eversiva e innovativa. Fra i numerosissimi volumi dedicati al film, ricordiamo a titolo di esempio Massacre à la tronconeuse di Jean-Baptiste Thoret che analizza il capolavoro di Hooper con minuzia e cura dei dettagli. Ovviamente nel corso del tempo numerosi sono stati i registi che hanno tentato di appropriarsi del lascito del film di Hooper. Non ultimo il solito Winding-Refn che a Cannes, nel corso della serata che la Quinzaine des Réalisateurs (dove Non aprite quella porta aveva esordito nel 1975) ha dedicato qualche anno fa a Tobe Hooper ha letteralmente messo a tacere il regista americano, visibilmente malmesso, dando libero sfogo al suo narcisismo per spiegare al pubblico come lui sia stato profondamente influenzato dal film (come se la cosa potesse vantare qualche interesse).

Per Tobe Hooper il vero problema è sempre stato: c’è vita oltre Non aprite quella porta? E se sì, quale? Due anni dopo Hooper ci riprova con Quel motel vicino alla palude, una specie di monster-movie sui generis con un alligatore gigante nutrito con i clienti di una lercia stamberga. Il senso della poetica di Hooper è chiaro: gli Stati Uniti sono un paese cannibale. La seconda guerra civile è in atto e una parte del paese si mangia letteralmente l’altra. Ovviamente il confronto con il film precedente non è proponibile ma a distanza di anni Quel motel vicino alla palude tiene e bene.

Tre anni dopo Hooper realizza il film per la tv tratto da Le notti di Salem di Stephen King, probabilmente uno dei suoi risultati migliori. Anche se la traccia kinghiana è ridotta al minimo, il film scava sotto la superficie della superficie della provincia americana con grande precisione politica. E il vampiro che graffia sospeso nell’aria i vetri implorando di essere ammesso in casa è un’immagine che resta nell’immaginario horror.
A cavallo fra la fine degli anni Settanta e l’inizio del decennio successivo, Hooper sembra avere trovato la sua posizione nell’industria cinematografica. Con Il tunnel dell’orrore, straordinario slasher movie di grande inventiva, il regista dimostra come la sua maggiore dote sia ottenere il massimo con il minimo. Non a caso l’anno dopo, nel 1982, anno chiave per l’horror statunitense, Steven Spielberg lo convoca per dirigere Poltergeist, forse il suo film migliore dopo Non aprite quella porta.  

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Le cronache narrano narrano di disaccordi sul set con Spielberg che infine rileva il film da Hooper pur lasciando al collega la paternità dell’opera. All’epoca ci si divideva in fazioni per tentare di capire cosa fosse di Spielberg e cosa di Hooper. Oggi il film resiste meglio delle singole parti che lo compongono anche se la carriera di Hooper in qualche modo ne risentirà. E infatti trascorrono tre anni prima che si presenti la Cannon alla sua porta con la proposta di dirigere Space Vampires (Lifeforce). Trattato forse con eccessiva severità all’epoca, il film è la somma affascinante fra le aspirazioni di Hooper e le esigenze di Golan e Globus. E Mathilda May è indimenticabile.

Che Non aprite quella porta dovesse avere un sequel era inevitabile. Un anno dopo Hooper si presta al gioco. Con gli effetti speciali super gore di Tom Savini, Hooper crea una geniale baracconata super splatter che purtroppo non vedrà mai la luce nella sua versione integrale. Interpretato da uno spiritato Dennis Hopper, il film è come un urlo con il quale Hooper sembra volere emanciparsi dalla sua creazione più famosa. E questo seguito resta fra le cose migliori del regista. Senza ombra di dubbio.

Però il dado è tratto ormai, Hooper è messo ai margini dell’industria e Invaders from Mars non fa nulla per migliorare la sua posizione. Seguono film per la tv, episodi di telefilm, un trascurabile I figli del fuoco, un episodio accettabile nel film collettivo Body Bags. Da dimenticare invece cose come The Mangler o l’indegno The Mortuary mentre l’unico reale barlume di vita lo si ritrova nel cupo ma rabbioso e vitale La casa dei massacri, rifacimento a costo quasi zero di The Toolbox Murders (ossia Lo squartatore di Los Angeles).

Uno scarto vitale, l’ultimissimo, Hooper lo ritrova con gli episodi realizzati per la serie Masters of Horror. Mentre di Djinn, film che avrebbe potuto segnare un nuovo inizio, restano solo le ambizioni, stritolate da una committenza incapace di comprendere il progetto del regista.
Eppure, nonostante un lunghissimo crepuscolo di carriera avara di soddisfazioni reali, il nome di Tobe Hooper resta inciso per sempre, a lettere di fuoco, nella storia del cinema. Segno di un cinema che ha saputo essere insurrezionale, anarchico e, soprattutto, libero pagandone tutte le conseguenze.