«Quando crescevo, da ragazzo, in questo paese c’erano molte cosa sacre. Le donne erano sacre, riverite con grande onore. Come ovvio da casi recenti, oggi non è’ più così». Nemmeno il capo del gabinetto di Trump, John Kelly, ha resistito alla tentazione di evocare lo tsunami messo in moto dalla discesa agli inferi di Harvey Weinstein. Nella sua breve apparizione davanti ai giornalisti, in difesa dei contenuti di una telefonata fatta da Trump alla vedova di uno dei soldati uccisi in Niger (per una missione che rimane imprecisata), il sessantasettenne generale a quattro stelle ha fustigato la reazione dei media («sono stupefatto», ripetuto tre volte, per maggior enfasi) e insultato una deputata afroamericana dall’alto della superiorità morale dell’esercito.

Insieme a quella delle donne, ha commiserato Kelly, oggi anche la sacralità della vita e quella della religione sono andate al macero. Tra l’inquietante lamento nostalgico per l’America bianca, maschile, normanrockwelliana che ha consegnato la Casa bianca a Donald Trump (e reso possibile, negli Usa del 2017, marce di neonazisti armati di fiaccole) e il furioso, cieco, self help collettivo di #MeToo, la storia continua.

Nel week end, sul magazine Nbc «Meet the Press», Elizabeth Warren raccontava di un collega che la inseguiva intorno alla scrivania, la senatrice Claire McCaskill di quella volta che è andata a chiedere consiglio a un deputato del parlamento del Missouri e lui le ha domandato se si era portata i para-ginocchia.
Dallo studio del suo nuovo programma, in onda su Nbc, l’ex star di Fox News Megwyn Kelly, lunedì mattina, attaccava la potente rete all news di Murdoch, e il direttore del personale che è una donna, per aver insabbiato anni di proteste delle impiegate per le pesanti attenzioni indesiderate prestate loro dall’anchor Bill O’Reilly, messo alle porte qualche mese fa. È di sabato, infatti, un nuovo reportage del «New York Times» in cui si legge che, solo la primavera scorsa, Fox News aveva rinnovato (con l’aumento!) il contratto di O’Reilly nonostante fosse al corrente che il conduttore tv aveva da poco messo a tacere l’ennesima denuncia per molestie sessuali – con un assegno da 32 milioni di dollari, sborsati di tasca sua. O’ Reilly ammette di aver pagato, ma nega qualsiasi improprietà.

Weinstein, che aveva cercato di cavarsela con una frazione dei costi, e si dice scappato in Svizzera come nelle barzellette, nega tutte le accuse di stupro. Privato delle membership di tutti i club esclusivi di cui faceva parte – dall’Academy in giù – il produttore sarà oggetto di una nuova inchiesta annunciata ieri dal procuratore dello stato di New York Eric Schneiderman, messo alle strette perché il sistema giudiziario di questo bastione liberal avrebbe preso Harvey sotto gamba.

In questa nuvola di euforia/isteria collettiva, alimentata a macchia d’olio e in tempo reale dai social e da una stampa che – per stare al passo con internet – ormai riporta qualsiasi dettaglio salace senza verificarlo, e dove chi non prende le distanze o si disinfetta è complice, l’ultimo mostro sbattuto in prima pagina non è un uomo di potere o protetto da una grossa corporation ma il regista newyorkese James Toback, accusato – secondo il «Los Angeles Times» – da una trentina di donne che lui avrebbe avvicinato, sollecitando avances sessuali in cambio di un ipotetiche e rosee future carriere nel cinema. Non si capisce secondo che premesse, visto che la maggior parte dei suoi film sono piccole produzioni indipendenti, spesso messe insieme con fatica. Toback nega categoricamente tutte le accuse – anche per questioni di salute- e di conoscere le sue accusatrici.

Certo, quella del fotografo che ti ferma per la strada e promette una carriera da Naomi Campbell o del regista sconosciuto che ti lancerà a Hollywood è una tecnica di pick vecchia come il mondo. Un tentativo di «far colpo», patetico e squallido, come tanti altri.

Siamo veramente così indifese e ingenue, da dover urlare al pervertito? E il prezzo dello scarto in là, per le donne, è veramente questo baccanale dell’umiliazione collettiva in cui la differenza tra uno stupro e uno che ci prova in modo maldestro, viene azzerata come niente? Un segno preoccupante dei tempi è ben riflesso nelle ultime battute dell’intervista che Quentin Tarantino ha rilasciato al «New York Times». «Pensa che la questione di Weinstein influirà sulla futura percezione dei suoi film, sulla sua eredità artistica?», chiede il giornalista. E, invece di ribellarsi alla logica del tutto assurda della domanda, il regista di Pulp Fiction, ha riposto «Non so. Spero di no».