Certi rancori sono duri a morire. «Jane Fonda dovrebbe essere in prigione», è sbottato il signore (look benevolo, da Babbo Natale) che mi stava preparando la cioccolata calda dopo aver sentito che parlavo dell’attrice. «Con quello che ha fatto in Vietnam: è una traditrice», ha rincarato la dose di fronte alla mia faccia stupita e sporgendo il bicchiere fumante – «niente carte di credito. Solo cash». In alcuni angoli degli States la memoria di «Hanoi Jane» non si è spenta ma, se non tutti gli abitanti di Park City sono dei fan, è stata un’accoglienza trionfale quella riservatale dal pubblico del festival, dove è venuta a presentare il patinato doc HBO Jane Fonda in 5 Acts, diretto dalla regista di Spielberg, Susan Lacy, e ispirato dall’autobiografia dell’attrice/attivista, My Life So Far.

Jane Fonda appears in Jane Fonda in Five Acts by Susan Lacy, an official selection of the Documentary Premieres program at the 2018 Sundance Film Festival. Courtesy of Sundance Institute | photo courtesy of Everett Collection. All photos are copyrighted and may be used by press only for the purpose of news or editorial coverage of Sundance Institute programs. Photos must be accompanied by a credit to the photographer and/or 'Courtesy of Sundance Institute.' Unauthorized use, alteration, reproduction or sale of logos and/or photos is strictly prohibited.

In un momento in cui le donne sono al centro di qualsiasi conversazione, è interessante l’incontro tra le femministe della generazione di Fonda, Gloria Steinem o Deneuve e le millennials – un incontro i cui potenziali attriti si erano già manifestati ben prima di #metoo, durante la campagna di Hillary Clinton. Sempre dalla «vecchia guardia», è arrivata a Park City una figura capace di metter d’accordo tutte, e il cui star power batte persino quello di Fonda: è Ruth Bader Ginsburg. Anche la minuscola, ottantaquattrenne, giudice della Corte suprema degli Stati uniti (nella cui longevità stanno l’80% delle speranze di non avere un’altra nomina made in Trump) si è materializzata per la prima di un documentario dedicato a lei e il cui titolo, RBG, deriva dal (sopran)nome rap conferitole dai fan, Notorious RBG.

È un nickname che la dice lunga sulla dimensione mitica del giudice, in una Corte pesantemente sbilanciata a destra, sulla sua determinazione e sul suo senso dell’umorismo (nel film la si vede ridere di gusto di fronte a immagini del Notorious B.I.G. il rapper implicato nella morte di Tupac Shakur e ucciso a sua volta in una sparatoria, e a quelle di Kate McKinnon, che la imita in Saturday Night Live). Come il doc su Fonda, formalmente parlando, RBG , di Betsy West e Julie Cohen, è molto tradizionale –ricchi materiali di repertorio e talking heads. Ma ha il pregio di ricostruire il lavoro importantissimo – e meno conosciuto- fatto da Ginsberg per i diritti delle donne, a partire da quando era un giovane avvocato, e molto prima che diventasse un fenomeno della cultura pop.

Come ogni anno, fin dai suoi inizi, Sundance crea l’impressione di essere in una bolla, un mondo fatto tutto di gente che la pensa come te. E l’extra dose di PC che ha dominato la selezione di quest’anno (overcompensating, overcompensazione, l’ha definita diplomaticamente un amico, importante critico Usa) fa sì che la dieta 2018 sia a base di troppi film mediocri pieni di buone intenzioni mal risposte, che sembrano in programma solo perché trattano di razzismo o sono diretti da donne. «L’altra» America, quella messa in risalto dai risultati delle elezioni 2017, lontano dalle coste e aldilà di questa stazione sciistica delle Wasatch dove una catapecchia di due stanze in paese vende per un milione di dollari, spunta qua e là. Memorabilmente in due dei migliori film visti finora, Blaze di Ethan Hawke e Leave No Trace, di Debra Granik. Come fece nel poco visto, salingeriano, documentario Seymour: An Introduction, nella sua nuova regia, Ethan Hawke nasconde dietro a un film sulla musica un pensiero romantico e più profondo sul mistero dell’arte.

Thomasin McKenzie and Ben Foster appear in Untitled Debra Granik Project by Debra Granik, an official selection of the Premieres program at the 2018 Sundance Film Festival. Courtesy of Sundance Institute | photo by Scott Green. All photos are copyrighted and may be used by press only for the purpose of news or editorial coverage of Sundance Institute programs. Photos must be accompanied by a credit to the photographer and/or 'Courtesy of Sundance Institute.' Unauthorized use, alteration, reproduction or sale of logos and/or photos is strictly prohibited.

La storia, scritta a quattro mani con la vedova del protagonista, Sybil Rosen, è quella del musicista country blues, Blaze Foley (Ben Dickey, musicista anche lui), ucciso da un colpo di pistola nel 1989, a 39 anni, e ri-conosciuto, quando le sue canzoni struggenti sono entrate nel repertorio di Lyle Lovett e Willie Nelson. Hawke struttura il film in modo libero impressionista –le immagini che giocano come in un caleidoscopio- tra l’ultimo concerto di Foley, in un bar texano, poco prima di essere ucciso, un’intervista su di lui data dall’amico Townes Van Zandt (Charlie Sexton) e la storia d’amore con Sybil (Alia Shawkat). Lei piccola, ebrea, luminosa, che vuole fare l’attrice; lui enorme, appeso alla chitarra, e sempre dolcemente in bilico sull’abisso della disperazione. Il loro idillio consumato in povertà totale, in una capanna sperduta nei boschi, dove la musica gli esce come un fiume e il mondo «fuori» (lo scherno degli ubriachi nei localacci dove suona, le tentazioni dei cowboy discografici Richard Linklater e Sam Rockwell, la spirale della bottiglia) viene tenuto a bada dalla distanza.

Quel senso remoto di non poter/voler appartenere alla società attraversa anche il nuovo film di, Debra Granik, una regista che, come Kelly Reichardt ama il paesaggio umano e geografico dell’America dei margini. Come quello di Hawke, il suo e uno sguardo non compiaciuto, non paternalistico, non sentimentale, per raccontare la storia di un veterano (Ben Foster) che (soprav)vive nascosto nei boschi dell’Oregon con sua figlia teen ager (la scoperta neozelandese Thomasin Harcourt McKenzie), come se fossero le giungle del Vietnam.