Alla fine di quest’anno, l’esplorazione spaziale farà un passo storico: se tutto va bene, una sonda dovrebbe adagiarsi sul lato oscuro della luna.

Nessuno finora si è mai azzardato a provarci, perché allunare dalla parte della luna da cui non si vede la terra è tecnicamente più complicato: i contatti radio da lì possono essere solo indiretti. A compiere questo storico passo sarà la Cina, con due missioni chiamate Chang’e 4, dal nome della dea della luna cinese. Due perché la prima, che verrà lanciata in estate e si collocherà in orbita dietro la luna, servirà per ritrasmettere il segnale, e la seconda sarà il vero e proprio modulo di atterraggio.

Un modulo già sperimentato cinque anni fa: per la prima volta dagli anni 70, nel 2013 un manufatto umano, Chang’e 3, è allunato dolcemente sulla superficie del nostro satellite. Le altre due missioni prima di questa erano stati degli orbiter lunari, il primo dei quali lanciato nel 2007. Nel futuro prossimo, forse nel 2019, la numero 5 della serie, dovrà raccogliere campioni lunari e riportarli a terra. Il passo successivo, tra una decina d’anni, dovrebbe essere quello di far mettere piede sulla luna alla prima donna.
Ma le ambizioni spaziali cinesi vanno molto più in là della dimostrazione di saper riconquistare la luna da soli. E nascono molto prima. Il 24 aprile 1970 la Cina mise in orbita il suo primo satellite.

Proprio per questo, dal 2016, il 24 aprile è la festa dello spazio in Cina, curiosamente pochi giorni dopo il giorno internazionale del volo spaziale umano, che l’Onu ha fissato per il 12 aprile, in ricordo del primo volo di Yurij Gagarin (nel 1961).

Deng Xiaoping aveva un approccio molto pragmatico rispetto allo spazio, e puntò esclusivamente su applicazioni pratiche, come le telecomunicazioni, la meteorologia, il militare e la navigazione. Solo negli anni 90 il paese ha deciso di puntare più in alto, e già nel 1992 si decise la costruzione di una stazione spaziale – per confronto, Europa, Stati Uniti, Russia, Giappone e Canada iniziarono la costruzione dell’attuale Stazione spaziale internazionale (Iss) nel 1998. Yang Liwei, il primo taikonauta – astronauta cinese – ha volato nel 2003, e nel 2017 erano già 11 (2 donne) i cinesi ad essere stati in orbita.

La navicella spaziale cinese è lo Shenzou («vascello divino»), analoga alla Soyuz russa che porta gli astronauti sulla Iss. E poi ci sono i due laboratori spaziali, il Tiangong («palazzo celeste») 1 e 2, il primo dei quali dovrebbe rientrare sulla terra questo mese, disintegrandosi. Proprio con Tiangong 1 i cinesi hanno dimostrato di essere in grado di effettuare la complessa manovra di docking (accoppiamento) con la Shenzou, una manovra chiave per assicurare la viabilità del volo spaziale umano. Il terzo della serie dei Palazzi celesti dovrebbe essere lanciato nel 2020, per iniziare la costruzione della vera e propria stazione spaziale, prevista per il 2022.

Con solo circa sei miliardi di dollari – un terzo del budget della Nasa – l’Agenzia spaziale cinese, che ha delineato i suoi obiettivi fino alla fine del decennio nel piano quinquennale del 2016, continua a rispettare i propri obiettivi. Con alcune battute d’arresto: nel 2017 dovevano essere effettuati 30 lanci, ma dopo un incidente in estate con il missile di lancio Lunga Marcia 5, di potenza analoga al più grosso lanciatore della Nasa, si sono fermati. Ma puntano a recuperare nel 2018 con una 40ina di nuovi lanci.

Secondo Marco Aliberti, dello European Space Policy Institute di Vienna, l’obiettivo a lungo termine della Cina è quello di «trasformarsi in una potenza spaziale comprensiva, capace di fare innovazione scientifica in maniera indipendente, creare tecnologia d’avanguardia su cui basare la propria crescita e proiettarsi sul mondo sfruttando le opportunità in campo civile e militare». Tutti gli osservatori concordano nel sottolineare che nonostante le apparenze, lo spazio in Cina sia sostanzialmente gestito dai militari.

Ed è chiaro che, come accade spesso per lo spazio, si tratta di tecnologia duale: se sai muovere un robot sulla Luna, lo sai far muovere anche in un campo di battaglia; se sai come far attraccare un satellite a una stazione spaziale, poi potrai usarlo in uno scenario di guerre spaziali per intercettare un satellite nemico. Ma, come sottolinea Aliberti, l’ambizione spaziale non nasconde solo obiettivi militari. Il costante richiamo alla tradizione culturale cinese – ad esempio negli immaginifici nomi – «serve per trasmettere internamente il messaggio che la Cina sta realizzando il grande sogno di rinnovamento nazionale, che il Partito comunista potrà garantire l’alternativa al sogno americano, che la Cina tornerà a essere centrale nel mondo».

Verso l’esterno, la Cina usa le missioni spaziali per dimostrare di essere una grande potenza avanzata tecnologicamente, che non sa fare solo magliette e scarpe. Ma – nonostante i timori degli Stati uniti, evidenziati a febbraio in un preoccupato incontro del National Space Council a Washington – «furbescamente, la Cina non visualizza i propri sforzi come una sfida all’egemonia statunitense», spiega ancora Aliberti.

Anzi. Il messaggio che vogliono trasmettere al mondo è che loro sono aperti alla cooperazione, soprattutto con i paesi in via di sviluppo, che è esattamente quello che chiedono le Nazioni unite. Insomma, «una superpotenza benevola, non arrogante come gli Usa, che punta alla leadership morale». Stati Uniti che hanno invece sempre messo il veto – cristallizzato addirittura in una legge del 2011 – alla collaborazione con la Cina. Tanto che, nonostante sia Russia, sia Europa fossero aperti a una collaborazione spaziale e ad aprire le porte della Iss anche alla Cina, gli Usa hanno sempre bloccato tutto per timore di essere spiati e di perdere tecnologia. Ora per l’amministrazione Trump, che a parole dice di voler aprire un canale di dialogo con il gigante cinese, si apre un’opportunità diplomatica anche attraverso lo spazio.

La Cina sa che la cooperazione porta benefici. Dal punto di vista tecnologico, perché apporta know-how, come temono gli Usa. Politicamente, perché dà un’immagine positiva del paese e allo stesso tempo permette di socializzare gli insuccessi.

«Non è la stessa cosa che muoia un taikonauta in una missione internazionale che in una missione solo cinese», osserva Aliberti. Il timore per l’immagine negativa è tale che i primi lanci non venivano neppure trasmessi in diretta per paura di incidenti. E poi c’è l’aspetto economico: «La Cina sta investendo in una miriade di programmi ambiziosi contemporaneamente: scienza dello spazio, esplorazione robotica, volo umano, progetti tecnologici come la rete di geolocalizzazione Beidou. Tutto questo implica costi elevatissimi. Cooperare con altre nazioni significa condividere i costi. La Cina sta vivendo una fase di soft landing economico e deve essere cauta». Il paese sta facendo molti sforzi per guadagnarsi la fiducia internazionale, soprattutto dopo l’incidente del 2007, quando colpì con un missile un proprio vecchio satellite meteorologico, Fengyun («nube di vento»), creando un’enorme nube di pericolosi frammenti, per dimostrare implicitamente di essere in grado di colpire qualsiasi satellite (e quindi anche i nemici) da terra.

Da allora però gli sforzi di non far irritare gli altri paesi sono cresciuti. La Cina ha messo a disposizione un sistema di monitoraggio dei rifiuti spaziali. Ha aumentato le collaborazioni.
Se gli Usa non ne vogliono sapere, non vale lo stesso per molti altri paesi, fra cui la Russia e l’Europa. Astronauti europei, fra cui l’italiana Samantha Cristoforetti, si allenano dall’anno scorso con i colleghi cinesi in vista di future missioni spaziali congiunte.

«L’Europa è stretta fra la morsa della propria volontà di espandere la cooperazione con la Cina, perché non ha programmi autonomi di esplorazione spaziale umana, e la necessità di non fare irritare il potente alleato americano», conclude Aliberti. «Ma non ha una voce sola, il consenso intraeuropeo è complicato. Il vantaggio è che però l’Agenzia spaziale europea, che ha già firmato molti accordi di cooperazione con la Cina, è guidata da una logica programmatica e non di politica estera, perché non è uno stato».