Il governo Draghi è un caso di ‘cesarismo’, cioè di sostanziale delega della decisione politica a una sola persona. Con una maggioranza come quella che lo sostiene, l’unico modo di governare sarà demandare ogni decisione importante al presidente del Consiglio e al suo staff.

Uno staff in cui vanno compresi i ministri ‘tecnici’). Un cesarismo finanziario e dell’Unione europea, di cui Draghi accoglie le linee guida fondamentali.

Il cesarismo può avere caratteristiche regressive o progressive, o può contenerle entrambe (ma anche in questo caso, una delle due prevale). Sembra il caso del governo che sta nascendo. Le tonalità ‘progressive’ del discorso programmatico e degli interventi di Draghi in Parlamento riguardano le politiche economiche espansive, l’ambiente, la riduzione delle diseguaglianze di genere, la difesa del territorio, il rafforzamento della medicina territoriale (anche se non esplicitamente legato alla sanità pubblica).

Tra quelle ‘regressive’: il riferimento all’istruzione limitato all’estensione del calendario scolastico e al rafforzamento dei soli istituti tecnici (che può alludere a una prospettiva di dequalificazione della futura forza lavoro); una difesa del lavoro circoscritta a categorie come donne, giovani e autonomi, secondo Draghi le uniche colpite dalla crisi, con una lettura che non lascia molte speranze a precari e lavoratori manuali, magari non più giovani; il rigido riallineamento ‘atlantista’ dell’Italia; una riforma del fisco ancora incentrata sul refrain della riduzione del carico fiscale, in particolare alle aliquote più alte; le politiche restrittive sui migranti; l’idea che nel mondo dell’economia e del lavoro debba sopravvivere solo chi sa adeguarsi ai tempi e ai modi della concorrenza internazionale, ribadendo però la centralità di settori come il turismo, che collocano buona parte dell’economia italiana tra le fasce semi-periferiche dell’economia internazionale.

Draghi in Parlamento ha cercato di dare alla sua idea di governo una dimensione di epocalità, evocando una ristrutturazione del paese incentrata (come già detto da altri premier e altri governi) sulla transizione verde e digitale, sulla riforma della pubblica amministrazione e su politiche, per il momento, non austeritarie. Una prospettiva che non è utile leggere con chiavi lineari come quella di un governo solo liberista e anti-sociale. Draghi prova a svolgere entrambe le parti del discorso politico, quella progressista e quella conservatrice (in un’eterna riedizione della Democrazia Cristiana).

La previsione su quale delle due prevarrà è piuttosto scontata, vista la composizione politica e sociale di un governo che include tutte le èlite del Paese.

Se sul piano programmatico l’ambivalenza è tra cesarismo progressivo e regressivo, sul piano politico è tra populismo e tecnocrazia. Si tratta di due termini spesso considerati in contrapposizione, e diversi commentatori vedono nel passaggio attuale un superamento della fase populista della politica italiana. In realtà, le retoriche che accompagnano il nuovo governo hanno molti elementi populisti.

L’anti-politica diffusa dai media non ha mai raggiunto livelli così alti. Espressioni come “questo è il governo del Paese” o “l’unità è un dovere”, usate da Draghi in Senato, così come l’individuazione mediatica dei partiti come unico potenziale ostacolo al dispiegarsi dell’azione governativa, richiamano il tipico organicismo del populismo conservatore, secondo cui la società è un organismo, un tutto indistinto, e le ‘fazioni’, cioè le organizzazioni sociali e politiche portatrici di interessi e visioni di parte, sono equiparabili a una malattia che indebolisce il corpo monolitico della formazione sociale. Da un lato quindi la tecnocrazia è una delle tante forme del populismo, dall’altro produce per reazione altro populismo.

In questo contesto è già visibile la dinamica politica che potrebbe configurarsi. La destra, dal governo e dall’opposizione, farà politica. Il Pd agirà coerentemente con la sua natura, quindi più da apparato dello Stato che da partito politico. La sinistra che sostiene il governo e il M5S potrebbero subire processi dissolutivi, e sono ormai privi di riconoscibilità per una parte significativa del loro elettorato. Lo stesso mantenimento dell’alleanza Pd-M5S-LeU sarà difficile.

Le condizioni sono favorevoli, perché per la prima volta, possa essere una sinistra rinnovata nelle forme, nelle pratiche e nei volti e non ancora presente in Parlamento, a giocare il ruolo della forza nuova e anti-èlite, come fece il M5S durante il governo Monti. Queste le condizioni oggettive. Su quelle soggettive, forse si può ora lavorare con un’ottica di lungo periodo e aggregare forze sociali e culturali in un nuovo progetto, cercando di cogliere una potenziale opportunità.