Se La lezione di Obama di Stefano Lucchini e Raffaello Matarazzo (Baldini&Castoldi, pp. 128, euro 14,90) riguardasse le vicende politiche italiane invece che americane, il sottotitolo del libro sarebbe: «Come perdere le elezioni nell’era della politica 2.0», riferendosi agli schieramenti sia di centrodestra che di centrosinistra. Siccome gli Stati Uniti e l’Italia non sono nettamente separati ma viaggiano semplicemente a velocità diverse, come scrive a commento Roberto d’Alimonte (e con l’Italia e l’Europa sempre in ritardo), possiamo imparare da questa lettura come recuperare e riconsegnare alla politica italiana il suo vero e unico significato: l’arte di governare la società in realtà complesse che hanno bisogno contemporaneamente di partecipazione e di velocità nella decisione. I nostri riti politici, già ieri barocchi, oggi sono insopportabili per un sistema dinamico in cui l’internazionalizzazione dell’impresa, i tempi della comunicazione e l’ascensore sociale per le persone che lavorano. Pena un declino inarrestabile.

Le ragioni della vittoria

Lucchini e Matarazzo hanno il merito di descrivere con chiarezza e sintesi quanto è accaduto nelle elezioni Presidenziali americane del 2012 in poi. Procedono con i dati in mano e una conoscenza reale delle posizioni e della storia dei candidati, senza pregiudizi né settarismi: un approccio molto anglosassone e poco italiano. La vicenda americana registra infatti l’irruzione di tre grandi novità: una «estrazione mineraria di dati» per costruire proposte coerenti con il pensiero e gli interessi di chi si vuole rappresentare; un capillare processo di radicamento sul territorio, con «un volontario in carne ed ossa» che va di porta in porta; un meccanismo efficace di finanziamento privato attraverso la Rete. I Repubblicani perdono per tre ragioni: la difficoltà nel passare da quattro anni di opposizione radicale ad una piattaforma politica credibile; una comunicazione snodata solo lungo i canali tradizionali e le divisioni interne dovute da primarie lunghissime, che hanno logorato il loro candidato. I messaggi di Obama si sono diffusi attraverso smartphone, tablet, e una miriade di nuove applicazioni, affiancati però da un imponente coinvolgimento di migliaia di giovani, dando così rappresentanza alla parte emergente della popolazione. I democratici vincono, pur in presenza di una crisi economica e sociale terribile, anche per merito di Jeremy Bird, un trentenne che da Chicago, senza nemmeno raggiungere Washington, ha raccolto e ordinato una colossale quantità di dati, che serviranno poi a costruire un rapporto diretto con la moltitudine dei gruppi di interesse e a raccogliere fondi, anche di pochi dollari per volta. La campagna elettorale più costosa del mondo (6 miliardi di dollari compresa l’elezione del congresso) è stata decisa però «dalla politica e dalla analisi della società che la sottende»: fuori dai «palazzi», per capire sentimenti profondi, cambiamenti in atto, desideri e sogni dei cittadini.  Non a caso, anche da noi, Renzi e Grillo provengono da «fuori» e hanno in comune l’ostilità verso gli «apparati» di partito e di sindacato.

Alternative nette

Gli autori segnalano un altro dato fondamentale. Al centro della competizione americana campeggia un aspetto a lungo rimasto «colpevolmente» in ombra: l’ideologia. Il termine fa venire l’orticaria per come è stato distorto in Italia, ma negli Usa ha permesso agli elettori di prendere posizione tra due visioni antitetiche del mondo, dell’economia, del ruolo dello Stato. Sono entrati in campo temi come i minimi salariali, i servizi pubblici a partire dalla sanità, la difesa del diritto allo studio, i diritti civili. Non a caso le donne hanno rivestito un ruolo centrale nella vittoria di Obama, il 55% a suo favore contro il 44% per Romney, e le minoranze gli hanno accordato circa l’80% dal consenso: rappresentano il 37% della popolazione Usa e diventeranno nel 2050 la maggioranza assoluta. Provate a immaginare in Italia, patria delle larghe intese e dell’eterna unità nazionale contro questa o quella «emergenza», cosa significherebbe restituire una sana dimensione divaricata alla destra e alla sinistra. Tornerebbero in prima linea le capacità di analisi e risoluzione dei problemi. La finiremmo con i comici. Parole oggi vuote come «destra» e «sinistra» recupererebbero un significato reale per la vita, i progetti e le speranze delle persone. Per questo è importante partire dai dati e non da un mondo immaginario che non esiste. Nel 2008, raccontano ad esempio gli autori, negli Usa i repubblicani avevano raggiunto picchi senza precedenti tra gli operai, con 30 punti in più dei democratici. Obama non ha risposto alla maniera tipica della sinistra italiana: «Gli operai sbagliano, non capiscono ma capiranno». Si è lanciato ventre a terra per capire le ragioni di quello spostamento, scoprendo che le grandi organizzazioni sindacali erano in crisi profonda di rappresentanza e non orientavano più il voto nemmeno dei propri iscritti. Qui vi è una grande somiglianza con l’attualità italiana. Un ruolo chiave per la riconquista di laureati e operai americani è stato proprio quello dell’ideologia, cioè una visione della società in cui il lavoro e l’attività manifatturiera di qualità tornano al centro delle politiche industriali. L’esempio più macroscopico è stato il salvataggio e il rilancio del settore auto, con un ruolo fondamentale dello Stato che poi ha riconsegnato le attività al mercato e all’iniziativa privata. Lucchini e Matarazzo affermano infine che se le elezioni del 2008 sono passate alla storia per i social media, la campagna elettorale 2012 verrà ricordata come quella dei «dati personali» e del microtargeting. Ogni elettore ha potuto raccontare la propria storia su una piattaforma digitale condivisa da molti altri. I social media, dunque, hanno funzionato stavolta davvero come un «ponte verso il territorio».