Il Teatro dell’Opera ha perso Silvana Pampanini, aggressiva capoclaque negativa (aveva sempre un fischietto nella borsetta) per ogni partitura del ‘900, ma si avvia a una stagione finalmente degna di interesse e curiosità per un pubblico nuovo. Dopo i bellissimi Bassarids di Henze magistralmente reso da Mario Martone, tocca ora a un’altra regista importante del nuovo teatro, Emma Dante, dar vita a un classico famoso, Cenerentola di Gioachino Rossini (repliche il 12 e 19 febbraio).

È un’opera famosa come la fiaba universale da cui nasce, di origine forse cinese ma immortalata da Perrault e dai fratelli Grimm. Rossini però varia alcuni particolari del racconto, grazie al libretto strepitoso di Jacopo Ferretti, che vale la pena di seguire nei sovratitoli, per apprezzarne la fulminante modernità di invenzione, sia di lingua che di spirito. La più clamorosa, rispetto alla tradizione, è che tra i persecutori della protagonista, a fianco alle sorellastre dagli epici nomi di Clorinda e Tisbe, ci sia non la matrigna ma un patrigno, don Magnifico, barone scalcinato di grandi pretese e pochi mezzi. E quel rapporto crudele e classista, getta altre ombre inquietanti sulla vicenda anche se la psicanalisi era di là dal nascere.

Coglie anche questo aspetto la regia di Emma Dante, nel cui mondo poetico rientra da sempre la violenza familiare e il sopruso generazionale e di genere che ne sono alla base. Ma forse proprio per far risaltare questa «corrispondenza» tra la favola rossiniana e tante storie che l’artista siciliana ci ha narrato (da Carnezzeria alle Pulle alle Sorelle Macaluso), la visione che ci offre (disegnata da Carmine Maringola) è quasi algida: la facciata chiara di un palazzo neoclassico che grava immobile sul racconto, anche se a tratti si anima nelle sue finestre percorse da folate di aperture.

Ma la vera chiave vincente, capace forse di incantare alla bella fiaba in musica, è l’osservazione di Cenerentola come donna condannata a non poter uscire dalla casta più bassa dello sfruttamento domestico, anzi prigioniera di una vita meccanica tra lavaggi e pulizie, comandata a bacchetta e caricata a molla, come un pupazzo o un carillon dell’infanzia collettiva. Lei e tutte le altre donne, tanto da risultare moltiplicata almeno per dieci sosia replicanti, come lei prigioniere di faccende e pulizie, bambole meccaniche cui è stata tolta ogni responsabilità, se non quella di obbedire ciecamente e di compiere inappuntabile le faccende di casa.

Stessa naïveté, omologa a quella femminile, ha lo sguardo sull’universo maschile, di principi e servitori, tutti nelle loro divise color puffo di antichi soldatini di piombo, giocattoli vetusti che insieme alla grazia e ai colori conservano la durezza di giochi e schieramenti infantili. È quello l’universo in cui la fiaba viene sviluppata da Emma Dante, che si diverte, e cattura il pubblico, con quella indagine nell’ingenuità popolare e infantile, consapevole che l’apparente accelerazione del costume mantiene come sostrato resistente quell’ancestrale campo di battaglia.

Tra gelosie, invidie, violenze (che prendono corpo nelle botte che le sorellastre temibili assestano alla protagonista senza alcuna pietà), sorriso e commozione fanno un mix amaro che approfondisce e accende di luce sinistra quanto la stessa regista ci aveva mostrato in un delizioso spettacolo per bambini incentrato sempre sui medesimi personaggi, ma che già nel titolo rendeva protagoniste Adalgisa e Genoveffa. Qui buoni e cattivi scoprono tutti la propria falsità, la loro inutile ambizione.

Chi mostra sicurezza (quella del «male» ovviamente) è Alessandro Corbelli nel ruolo di don Magnifico; le sorellastre (Damiana Mizzi e Annunziata Vestri) rischiano la maniera nei loro esercizi di cattiveria, la Cenerentola di Serena Malfi cresce lungo l’opera, dando bella voce alla felicità disillusa del finale. E ugualmente il principe, Juan Franciscisco Gatell, rigido nel travestimento da povero in cerca del piede giusto per la sua scarpetta, alla fine ricompone come in un teorema la macchinazione come felicità, o viceversa. Alejo Perez appare divertito e immedesimato a dirigere l’orchestra per la fiaba, senza far torto a Rossini e al fascino della partitura. Che con la sua bellezza, come in una trappola ci irretisce dentro la ragnatela ambigua dei rapporti umani e di potere.