A confronto con l’era dello studio system, sono pochi, oggi, gli sceneggiatori che possono rivendicare un’impronta autoriale, riconoscibile a prescindere da chi è dietro alla macchina da presa -Tarantino, Mamet, forse i Coen. Aaron Sorkin è parte di quel gruppo ristretto. La lingua intricatissima, i dialoghi che corrono come un fiume in piena, l’ossessione per le oscillazioni del pendolo etico nell’universo comunicativo/ tecnologico/politico che ci circonda, la debolezza per lunghi monologhi densi di superiorità morale, meglio se pronunciati da personaggi imperfetti. Un copione di Sorkin si riconosce subito – dietro a autori visionari come Fincher (The Social Network) e non, come Danny Boyle (Steve Jobs).

In quella riconoscibilità sta la forza maggiore di Molly’s Game, esordio alla regia dello showrunner che, con The West Wing, portò il clima di elettrica fibrillazione di ER dentro alla Casa bianca, e la prima volta che Sorkin si confronta con un protagonista donna.
È Molly Bloom, aspirante campionessa di sci del Colorado che, quando una caduta rovinosa mandò in fumo il suo futuro nello sport, si inventò una carriera che, da cameriera presso il nightclub losangelino Viper Room, la portò a diventare manager di un giro di poker illecito per clienti iperdanarosi e star di Hollywood. Tratto dalla sua autobiografia, Molly’s Game è interpretato da Jessica Chastain, bianca e inscalfibile come l’alabastro, anche quando è ancora ragazzina e il padre (Kevin Costner) la sgrida se si fa male sulla neve piuttosto di abbracciarla.

Formata sui palcoscenici di New York, l’attrice di Zero Dark Thirty è a suo agio nei meandri della lingua sorkiniana e nella qualità driven, assorta, di tanti suoi personaggi. La incontriamo sotto inchiesta dell’FBI per possibili legami con membri della mafia russa che frequentavano allegramente le sue partite di poker notturne, organizzate in hotel a cinque stelle, annaffiate di whiskey d’annata, belle donne eleganti e giovani attori hollywoodiani a caccia di brivido.
Charlie Jaffey (Idris Elba), l’avvocato a cui si rivolge per la difesa, inizialmente non ne vuole sapere. Ma Molly lo seduce con il suo strano senso della giustizia, che ammette il gioco d’azzardo illegale, ma non sfuggire alle grinfie dell’FBI tradendo i propri clienti, anche se sono un po’ dei pendagli da forca. Il film si inanella in una serie di flashback in cui la vediamo – donna in carriera improvvisata, che cattura l’attenzione di un famoso attore con risaputa passione per le carte (nel film Michael Cera, soprannominato il giocatore X; nella realtà era Tobey Maguire), che la aiuta a mettere insieme i tavoli da poker più esclusivi sulla piazza, prima a Los Angeles e poi a New York.

Ambiziosa, calcolatrice e avvolta dalla stessa solitudine dell’agente CIA nel film di Kathryn Bigelow, Molly è forte di un libretto di clienti prezioso quanto quello di Heidi Fleiss. Alla chiusa -la scena è bella, a Central Park, lui sembra un fantasma. Purtroppo il messaggio è banale- tutto comincia e finisce con papà.