Due temi oggi centrali, apparentemente distinti, andrebbero invece connessi in modo diretto.

Primo, la COP 21 di Parigi, forse ultima occasione per un’inversione di rotta sul riscaldamento globale che rischia di rendere irreversibili i cambiamenti climatici già in corso. A questa minaccia abbiamo da tempo contrapposto il programma di una conversione ecologica, sulle tracce di Alex Langer e, ora, anche dell’enciclica Laudato si’ e del libro Una rivoluzione ci salverà dove Naomi Klein spiega che abbandonare i combustibili fossili richiede un sovvertimento radicale degli assetti produttivi e sociali; per questo le destre conservatrici, e non solo loro, sono ferocemente negazioniste. L’aggressione alle risorse della terra si lega alla povertà e alle diseguaglianze del pianeta: sia nei rapporti tra Global North e Global South, sia all’interno di ogni singolo paese: ciò che unisce in un unico obiettivo giustizia sociale e giustizia ambientale.

Secondo, i profughi. La distinzione tra profughi di guerra e migranti economici, su cui i governi dell’Ue stanno costruendo le loro politiche di difesa da questa presunta invasione di nuovi «barbari», non ha alcun fondamento: entrambi sono in realtà «profughi ambientali», perché all’origine delle condizioni che li hanno costretti a fuggire dai loro paesi, cosa che nessuno fa mai volentieri, c’è una insostenibilità provocata dai cambiamenti climatici, dal saccheggio delle risorse locali, dalla penuria di acqua, dall’inquinamento dei suoli, tutti fenomeni in larga parte prodotti dall’economia del Global North. Il problema occuperà tutto lo spazio del discorso politico e del conflitto nei prossimi anni. E, nel tentativo di scaricarsene a vicenda l’onere, sta dividendo tra loro i governi dell’Unione europea che avevano invece trovato l’unanimità nel far pagare alla Grecia la sua ribellione contro l’austerità. L’Ue, non come istituzione, e neanche nei suoi confini, bensì come ambito di un processo sociale, culturale e politico che abbraccia insieme all’Europa tutto lo spazio geografico e politico coinvolto da questi flussi, deve restare un punto di riferimento irrinunciabile per una prospettiva politica che, rinchiusa a livello nazionale, non ha alcuna possibilità di affermarsi.

Coloro che si sono riuniti per affermare un loro posizionamento riassunto nelle formule «No all’euro, No all’UE, No alla Nato» (declinate in termini di sovranità nazionale, anche con lo slogan «Fuori l’Italia dalla Nato», che lascia da parte l’Europa) si sono dimenticati dei profughi. Nella loro prospettiva a fronteggiare i flussi presenti e futuri, sia con i respingimenti che con l’accoglienza, resterebbero solo gli unici due punti di approdo di questo esodo: Italia e Grecia. Ma mentre l’Europa nel suo complesso avrebbe le risorse per farvi fronte, l’Italia, con una recuperata sovranità – posto che la cosa abbia senso e sia realizzabile – ne rimarrebbe schiacciata: il che forse rientra tra le opzioni della governance europea, non tra le nostre.

Quei flussi migratori stanno però creando una frattura sociale, culturale e politica anche all’interno di ogni paese: tra una componente maggioritaria, ma non ancora vincente, di razzisti, che vorrebbero sbarazzarsi del problema con le spicce, e una componente solidale, oggi minoritaria, ma tutt’altro che insignificante (come lo è invece la maggior parte della sinistra europea).

Tra loro i governi dell’Europa si barcamenano: dopo aver aizzato il loro elettorato, per fidelizzarlo, contro i popoli fannulloni e parassiti che sarebbero all’origine della crisi economica, si rendono ora conto che quel tema gli sta sfuggendo di mano e viene ripreso, in funzione anti-migranti, da forze ben più capaci di loro di metterlo a frutto.

Se per fermare quei flussi bastasse adottare misure molto dure, come barriere, respingimenti, esternalizzazione dei campi, esclusione sociale e carcerazione, probabilmente avrebbero già vinto i nostri antagonisti. Ma le cose non stanno così.

Innanzitutto quei profughi e migranti sono già, per molti versi, cittadini europei, perché si sentono tali: vedono nell’Europa la zona forte di un’area molto più vasta, quella dove si manifestano gli effetti dei processi – guerre, dittature, devastazioni, cambiamenti climatici – che li hanno costretti a fuggire.

Pensano all’Europa come a un loro diritto: un sentire che li pone in aperto conflitto con i governi dell’Unione, che di quel diritto non ne vogliono sapere. Per questo sono una componente fondamentale del proletariato europeo che esige un cambiamento di rotta fuori e dentro i confini dell’Unione.

Poi, sigillare la «fortezza Europa» non è semplice: significa addossarsi la responsabilità di una strage continua e crescente che sconfina con una politica di sterminio pianificata e organizzata: un processo già in corso da tempo e taciuto nel suo svolgimento quotidiano. Ma quanti sanno che i morti nei deserti, durante la traversata verso i porti di imbarco, sono più numerosi degli annegati nel Mediterraneo?

Terzo: la chiusura delle frontiere non può che tradursi in feroce irrigidimento degli assetti politici interni: repressione, autoritarismo, disciplinamento e limitazione delle libertà; a complemento delle politiche di austerità.

Infine, in una prospettiva di militarizzazione sociale non c’è spazio per la conversione ecologica e la lotta contro i cambiamenti climatici. Ma il deterioramento di clima e ambiente procederà comunque, trovando la fortezza Europa sempre più impreparata sia in termini di mitigazione che di adattamento.

Per questo accoglienza, inclusione e inserimento sociale e lavorativo dei profughi si innestano sui programmi di conversione ecologica: attraverso diversi passaggi:

  1. occorre prendere atto che i confini dell’Europa non coincidono né con quelli dell’euro, né con quelli dell’Unione o della Nato, ma abbracciano tutti i paesi da cui provengono i flussi maggiori di migranti: Medio Oriente, Maghreb, Africa subsahariana.
  2. occorre saper vedere nei profughi che raggiungono l’Europa, o che sono già insediati in essa, ma anche in quelli malamente accampati ai suoi confini, i referenti – grazie anche ai rapporti che continuano a intrattenere con le loro comunità di origine – di un’alternativa sociale alle forze oggi impegnate nelle guerre, nel sostegno alle dittature e nelle devastazioni dei territori che li hanno costretti a fuggire. Non c’è partigiano della pace migliore di chi fugge dalla guerra; né sostenitore della rinascita del proprio paese più convinto di chi ha subito le conseguenze del suo degrado.
  3. Dobbiamo vedere nell’inserimento lavorativo dei profughi una componente irrinunciabile della loro inclusione sociale e politica. Per questo occorrono milioni di nuovi posti di lavoro, un’abitazione decente e un’assistenza adeguata sia per loro che per i cittadini europei che ne sono privi. Non bisogna alimentare l’idea che ai profughi siano destinate più risorse di quelle dedicate ai cittadini europei in difficoltà.

La conversione ecologica e, ovviamente, la fine delle politiche di austerità possono rendere effettivo questo obiettivo. I settori in cui è essenziale intervenire sono noti: fonti rinnovabili, efficienza energetica, agricoltura e industria di piccola taglia, ecologiche e di prossimità, gestione dei rifiuti, mobilità sostenibile, edilizia e salvaguardia del territorio. Oltre agli ambiti trasversali: cultura, istruzione, salute, ricerca.

L’establishment europeo non ha né la cultura, né l’esperienza, né gli strumenti per affrontare un compito del genere; ha anzi dimostrato di non volere accogliere né includere neanche milioni di cittadini europei a cui continua a sottrarre lavoro, reddito, casa, istruzione, assistenza sanitaria, pensioni.

Meno che mai si può affidare quel compito alle forze «spontanee» del mercato. Solo il terzo settore, l’economia sociale e solidale, nonostante tutte le aberrazioni di cui ha dato prova in tempi recenti – soprattutto in Italia, e soprattutto nei confronti dei migranti – ha maturato un’esperienza pratica, una cultura e un bagaglio di progetti in questo campo.

Per questo è della massima importanza impegnarsi nella promozione di questi obiettivi, anche utilizzando la scadenza del Forum europeo dell’Economia sociale e solidale a Bruxelles il prossimo 28 gennaio.