A oltre un mese dall’omicidio di Bruno Pereira e Dom Phillips, la domanda che continuano a porre gli indigeni e i loro alleati è ancora senza risposta: chi ha ordinato di uccidere il grande indigenista brasiliano e il giornalista che lo accompagnava?

UNA POSSIBILE SVOLTA è data dall’arresto di Rubens Villar Coelho, noto come «Colômbia», per uso di documenti falsi: avevapresentato prima un’identità brasiliana e poi una colombiana (ma non si esclude che sia peruviano).

Colômbia ha ammesso di conoscere almeno uno dei tre pescatori attualmente agli arresti, Amarildo da Costa Oliveira, alias «Pelado», con cui ha detto di intrattenere relazioni commerciali, ma ha negato con decisione di essere coinvolto nell’assassinio.

E mentre le indagini proseguono, nella Vale do Javari si respira ancora paura e rabbia. «La nostra tristezza è immensa come la volta della foresta, la nostra rabbia è forte come la radice della castanheira», ha scritto in una nota l’Opi, l’Osservatorio dei diritti umani dei popoli indigeni isolati e di recente contatto. Assicurando: «Da parte nostra, la lotta continua, siamo in guerra, non ci fermeremo».

È UNA GUERRA, tuttavia, che sembra volgere al peggio per l’Amazzonia: altri 1.120 chilometri quadrati di foresta sono scomparsi a giugno, il dato peggiore degli ultimi sei anni.

«Rieleggere Bolsonaro significa decretarne lo sterminio», ha commentato Marina Silva, l’ex ministra dell’Ambiente di Lula, uscita dal suo governo in polemica con le sue politiche ambientali, ma oggi parte della maggioranza che lo sostiene.

Di certo, nel programma di governo di Lula e del suo vice Alckmin diffuso lo scorso 21 giugno, la protezione dell’ambiente e dei popoli indigeni e quilombolas assume maggiore centralità che in passato, ma non ancora abbastanza.

NON A CASO, la proposta di deforestazione zero è stata sostituita da quella assai meno ambiziosa di «deforestazione liquida zero» (a ogni ettaro di terra deforestata deve corrispondere il rimboschimento di un altro ettaro) e neppure è stato assunto un impegno esplicito rispetto alla demarcazione di tutte le terre indigene e quilombolas.

E non solo non appare alcuna indicazione di una riduzione dell’estrattivismo petrolifero, ma al contrario si pone l’accento sulla necessità di approfittare «della grande ricchezza del pré-sal» (gli enormi giacimenti petroliferi al largo delle coste brasiliane).

APERTO ai suggerimenti della popolazione attraverso la piattaforma di partecipazione popolare «Juntos pelo Brasil» (Insieme per il Brasile), il programma prevede lo smantellamento delle catastrofiche politiche del governo Bolsonaro e l’introduzione di misure a favore della giustizia sociale e di un maggiore protagonismo dello Stato.

Ma a destare preoccupazioni sono le tante riunioni tenute da Lula e Alckmin con i grandi imprenditori, allo scopo di ottenerne l’appoggio. Che non è gratis: in cambio, si attendono la garanzia che l’azione di governo si inscriva all’interno dei parametri concessi dalla classe dominante.

INTANTO, PERÒ, neppure Bolsonaro se ne sta con le mani in mano, reagendo ai sondaggi che gli sono sempre più sfavorevoli con ricorrenti minacce golpiste, a partire dall’invito ai militari a tenersi pronti di fronte alla possibilità di «aggressioni interne».

Ma è ai suoi sostenitori che il presidente ha inviato il messaggio più significativo: «Se il comando di cybersecurity dell’esercito individuerà brogli, tale lavoro non servirà a nulla, perché Fachin (presidente del Tribunale superiore elettorale, ndr) ha già dichiarato che questo non cambierà il risultato delle elezioni».

Allora, ha proseguito in una sorta di messaggio cifrato: «Sapete cosa è in gioco e come dovete prepararvi. Non parlo di un nuovo assalto al Campidoglio, nessuno vuole invadere nulla, ma sappiamo cosa dobbiamo fare prima delle elezioni”.