Arrivata finalmente nell’aula del senato, la riforma della cittadinanza – meglio conosciuta come legge sullo ius soli – ci resta dieci minuti appena. Gli ultimi dieci minuti a palazzo Madama, quando il presidente Pietro Grasso aveva già salutato i colleghi e ringraziato tutti i dipendenti, i senatori si erano fatti i selfie tra i banchi abbracciando alleati e avversari, quasi tutti in sostanza se n’erano andati. A casa per il natale, addio o arrivederci al Palazzo. Lontano dall’aula erano tutti i nemici della legge che due anni e due mesi fa, quando fu approvata dalla camera, aveva illuso sul destino civile del paese. Ma lontani erano anche alcuni di quelli che si erano dichiarati a favore. Non pochi, abbastanza per far mancare in aula il numero legale e chiudere in bruttezza la legislatura.

La conta si fa subito dopo l’ultimo voto sulla manovra e tre inutili scrutini per alcune nomine tentate in extremis. Centosedici i senatori presenti e ne sarebbero serviti almeno 149. La ricerca dei 33 mancanti può variamente orientarsi. Possono essere considerati responsabili i 35 senatori del Movimento 5 Stelle, contrari alla legge per calcolo elettorale e tutti assenti. Così come centristi e verdiniani di maggioranza, che però sono un po’ meno. Naturalmente assenti i senatori di destra, il gruppone di Forza Italia e quello della Lega, capeggiato dal senatore Calderoli che già aveva schierato i suoi 50mila emendamenti ostruzionistici ed è stato lui a chiedere la verifica del numero legale. Ma tra gli assenti si contano anche una trentina di senatori Pd, in teoria partito schierato per la legge. Cinque, infine, quasi fisiologiche, le assenze nella sinistra ora schierata con Grasso. Il quale, da presidente dell’aula, ha assunto un tono grave e «apprezzate le circostanze» – cioè che erano in troppi i non presenti, che siamo a natale e che subito dopo le camere saranno sciolte – ha rinviato l’argomento a una prossima eventuale seduta nel gennaio 2018. A quel punto le camere saranno in regime di proroga: la legge sullo ius soli si ferma qui.

Le uniche volte che la riforma della cittadinanza è stata discussa dall’aula del senato, in oltre due anni, è stato quando si è discusso il calendario dei lavori, con la maggioranza divisa. Ieri la mancanza del numero legale non è stata certo una sorpresa, la legge era già stata affondata definitivamente la scorsa settimana. Il ritardo della camera sulla legge di bilancio aveva dato la possibilità di riaprire una finestra. È stata a quel punto l’ostinazione nel voler evitare il voto di fiducia – per mettere al riparo Gentiloni in vista di una difficoltosa fase post voto – a risultare determinante. Le preoccupazioni elettorali del gruppo dirigente del Pd hanno fatto il resto.
Prima di sera Grasso ha fatto in tempo a tornare a Palermo, inaugurare una nuova sede di Liberi e Uguali e annunciare che il suo primo disegno di legge nel prossimo parlamento sarà quello sullo ius soli (peraltro è prevista una corsia preferenziale per le leggi approvate solo a metà). Nel frattempo dal Pd sono piovute accuse sul movimento 5 Stelle, accomunato alla destra «irresponsabile» in tutte le dichiarazioni dei dirigenti renziani. Ricostruzione corretta, ma anche assai limitata perché se la legge è naufragata è stato innanzitutto perché la maggioranza l’ha nascosta, dimenticata per due anni.

Più facile l’esultanza della destra, che tra Gasparri, Salvini e Meloni comincia subito la gara per intestarsi il sabotaggio. «La cittadinanza non si regala», insiste il leader leghista, e gli altri a ruota nei primi comizi digitali della campagna elettorale.
«Ciò che fa più male – ha detto invece il portavoce dell’Unicef Italia Andrea Iacomini – sono le ostinate dichiarazioni di alcuni esponenti politici di primo piano che fino a questa mattina in pubblico e in privato insistevano a dire che la legge sarebbe stata approvata. Mentivano sapendo di mentire. Finisce nel modo più incivile possibile: non viene approvata una riforma moderata nei contenuti e necessaria nella sostanza».