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L’amaro calice del succo di oliva

L’amaro calice del succo di oliva

Il fatto della settimana L’olivicoltura è in grande difficoltà. Tra le cause, la mancanza di un piano nazionale, l’abbandono delle coltivazioni, il clima e l’epidemia di Xylella in Salento

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 25 ottobre 2018

Nessuna pianta più dell’ulivo ha segnato il paesaggio e la cultura del Mediterraneo. Sono un migliaio le varietà (cultivar) presenti nell’area del Mediterraneo, facendo di questa pianta una delle specie a più alto indice di biodiversità. I paesi del Mediterraneo detengono più del 90% della produzione mondiale di olio e l’Italia è il secondo produttore dopo la Spagna.

In Italia l’ulivo è la coltura arborea più importante e diffusa. Presente in 18 regioni su 20, occupa una superficie superiore a un milione di ettari, che corrisponde al 10% della superficie agricola utilizzata. La Puglia, la Calabria e la Sicilia sono, nell’ordine, i principali produttori di olio con una quota pari all’80% del totale.

Sono circa 400 le cultivar individuate sul territorio italiano e ciascuna varietà ha avuto un processo evolutivo e di adattamento che è durato secoli. Il risultato è la produzione di olive e oli che hanno caratteristiche e contenuti organolettici unici. Le tecniche di coltivazione e di estrazione dell’olio si tramandano da più di duemila anni. La resa delle olive può avere notevoli variazioni che dipendono da varietà, clima, esposizione, epoca di raccolto. Per un litro di olio extravergine sono necessari dai 7 ai 10 kg di olive. Ma l’olivicoltura italiana è in difficoltà.

LA MANCANZA DI UN PIANO OLIVICOLO nazionale, la cattiva gestione degli uliveti, l’abbandono delle coltivazioni, i cambiamenti climatici, l’epidemia che sta colpendo gli ulivi del Salento sono fattori che stanno determinando un impoverimento del nostro patrimonio olivicolo. I 150 milioni di ulivi presenti sul territorio italiano vivono una condizione di sofferenza. Le produzioni sono sempre caratterizzate da grandi variazioni tra un anno e l’altro, ma la tendenza è quella di una forte diminuzione.

Si è passati dalle 600 mila tonnellate di olio d’oliva della fine degli anni ’90 alle 400 mila attuali. L’annata 2016/2017 è stata la peggiore degli ultimi decenni con una produzione di appena 182 mila tonnellate di olio. Al contrario dell’Italia, gli altri paesi del Mediterraneo hanno potenziato l’olivicoltura. La Spagna, la Grecia, la Tunisia, la Turchia, il Marocco hanno considerevolmente aumentato in questi anni le loro quote di mercato. Il mese di ottobre segna l’inizio della campagna olivicola che, per alcune regioni del sud, si protrarrà fino a gennaio. Migliaia di produttori olivicoli stanno iniziando la raccolta e il trasporto delle loro olive ai 5000 frantoi sparsi sul territorio nazionale. Si tratta, soprattutto, di piccoli produttori e anche se la produzione dell’olio non si accompagna al coinvolgimento emotivo che invece caratterizza la produzione del vino, tuttavia è una realtà con tanti protagonisti e tante attese.

L’ULIVO E’ UNA DELLE PIANTE CHE STA maggiormente risentendo dei cambiamenti climatici in atto. Le elevate temperature e i periodi prolungati di siccità condizionano il suo ciclo produttivo, incidono sulla fioritura e la maturazione del frutto, favoriscono lo sviluppo di insetti e parassiti. Le piante soffrono e la loro salute è peggiorata negli ultimi anni e, di conseguenza, peggiorano la qualità e la quantità dell’olio. Si fa fatica a gestire gli uliveti, soprattutto quelli posti nelle aree collinari. Non si è favorito un ricambio generazionale attraverso incentivi che potessero facilitare l’accesso all’attività agricola di nuovi lavoratori. Un quarto degli uliveti italiani è in stato di abbandono e quando un uliveto viene abbandonato rischia di essere perso per sempre, perché diventa una boscaglia ed è facile preda degli incendi. Ogni anno centinaia di incendi divorano, soprattutto nelle regioni del Sud, vaste aree in cui la presenza di uliveti abbandonati favorisce la propagazione del fuoco.

Negli uliveti in produzione sono state abbandonate le buone pratiche agronomiche: le piante non vengono potate con regolarità, non si effettuano aratura ed erpicatura, i terreni non vengono più arricchiti di sostanza organica, non si fa il diserbo meccanico per ostacolare la riproduzione degli insetti, si fa un uso sconsiderato di pesticidi. In questa situazione di alterato equilibrio dell’ecosistema agricolo è arrivata l’epidemia chiamata «Complesso del disseccamento rapido dell’ulivo» che, a partire dal 2013, sta colpendo il Salento, cuore produttivo dell’olivicoltura italiana. In questa area si sta consumando un vero e proprio dramma, sia dal punto di vista agricolo che sociale. Alberi secolari che si ammalano e, nel giro di poche settimane, rinsecchiscono.

IL CONTAGIO, PARTENDO DALLA PROVINCIA di Lecce, si è esteso alle provincie di Brindisi e Taranto e, all’inizio del 2018, ha raggiunto i confini meridionali della provincia di Bari. Si è di fronte ad una situazione di estrema gravità e complessità. L’individuazione delle cause dell’epidemia e le misure da adottare hanno diviso sia il mondo scientifico che gli operatori agricoli. Si attribuisce ad un batterio, la Xylella fastidiosa, la responsabilità della malattia, in quanto c’è una correlazione tra presenza del batterio nei tessuti delle piante e il loro disseccamento. Le sputacchine, una famiglia di insetti che pungono le piante per succhiare la linfa, sono i principali responsabili della diffusione del batterio nei tessuti degli ulivi.

GLI ALBERI IN BUONA SALUTE HANNO risposto meglio all’attacco della malattia. Questo significa che stanno operando numerose concause nel determinare la propagazione dell’epidemia. La Commissione Europea e il Ministero dell’Agricoltura hanno imposto come unica strategia per fermare l’epidemia l’abbattimento delle piante malate e l’uso sistematico di insetticidi e diserbanti. Gli agricoltori e le comunità locali hanno respinto queste misure.

La complessa situazione nel Salento ha riaperto il dibattito sullo stato dell’olivicoltura in Italia. Il rilancio del settore è un passaggio obbligato per l’agricoltura italiana per poter recuperare territori abbandonati, contrastare il dissesto idrogeologico, tutelare il paesaggio, creare opportunità di lavoro e di reddito.

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