Tutto comincia con la fine di un amore, le lacrime e la disperazione di una valigia nella notte che portano Jeanne davanti alla porta del padre Gilles in cerca di un rifugio. L’uomo, cinquantenne circa e professore di filosofia all’università non è solo: insieme a lui c’è la sua nuova compagna, Ariane che ha la stessa età della figlia. Sarà una strana convivenza fatta di gelosie, slanci, scoperte, di una complicità, forse più una segreta confidenza tra le due giovani donne che sembra lasciare l’uomo un po’ da parte. I tre si consolano, si amano, si feriscono, le traiettorie affettive dei diversi ruoli – amanti, padre-figlia, sorelle, amiche, rivali – si mischiano in un’altalena infuocata dove tutto finisce per ricominciare da un’altra parte.

 

 

Ariane (la molto brava Louise Chevillotte alla sua prima prova cinematografica) è una studentessa di Gilles (Eric Caravaca), passato di modella per riviste X, istintivamente seduttiva, Jeanne ha una testa più tortuosa, le piace inventare mondi, creare situazioni.
Ricordi quando ci siamo visti la prima volta chiederà a un certo punto del film Ariane a Gilles. L’uomo tentenna e lei con precisione gli narra di una sua lezione, quando lui ha detto che non c’era differenza tra la filosofia e la vita e i loro sguardi si sono incrociati: «Mi sono sentita messa a nudo».

 

 

 

 

 

Una rottura, un innamoramento. È qui, da questo «passaggio» che inizia il film di Philippe Garrel, L’amant d’un jour, che come ha raccontato il regista francese è il nuovo capitolo della trilogia di cui fanno parte La jalousie e L’ombre des femmes, una variazione (infinita) sui sentimenti contemporanei e fuori dal tempo modulata con tenerezza, indulgenza, semplicità. Era a Cannes, alla Quinzaine (naturalmente), in Italia chissà mai se uscirà – ma il nostro mercato come si dice con gentile eufemismo è «difficile» – chi vive a Roma o a Milano però potrà vederlo questi giorni in quell’emporio cinematografico che è la rassegna «Cannes a Roma/Milano».

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Gioia e sofferenza, disperazione e improvvisi slanci, tentazioni di suicidio e tradimenti si inseguono nelle vite dei personaggi, nei loro dubbi, in quell’improvvisazione esistenziale a cui con precisione (frutto di lunghe prove prima delle riprese) rispondono gli attori, sintonizzati quasi alla prima persona col regista – a Jeanne dà vita Esther Garrel, la sua figlia maggiore.

 

 

Garrel film l’amore in un movimento circolare e il sesso in verticale, Ariane che fa l’amore in piedi nel bagno della facoltà, col professore innamorato, «trasgressione» divertita di un desiderio che sfida la clandestinità. E poi nel bagno di un bar con un giovane amante occasionale, il fantasma del tradimento, della gelosia, della «perdita» mentre la macchina da presa si ferma sul suo viso, allo stesso modo in cui aveva fatto quando era con Gilles, illuminata dal bianco e nero sempre perfetto di Renato Berta – «Philippe ha girato il film in 21 giorni con una solo ciak per ogni inquadratura».

 

 

«Mai più » scrive la ragazza col rossetto sullo specchio dell’amante occasionale, non quello di un giorno, prima di scivolare nei vestiti e nella luce dell’alba verso casa. L’altro, Gilles, l’aspetta. «Anche se ci tradiremo resteremo insieme» aveva detto lui. So che ci lasceremo aveva replicato lei, e la verità delle parole finisce per infrangersi contro le immagini.

 

 

Jeanne ritrova il suo amore, Ariane e Gilles si perdono, il ciclo continua, una storia finisce, un’altra rinasce. E poi?
C’è sempre qualcosa di autobiografico, qualcosa che riguarda il vissuto, qualcosa che riguarda il cinema (che poi sono in sovrimpressione», c’è sempre molto Godard – «il solo in grado di parlare alla pari con le donne» nei film di Garrel. Che  ha scritto insieme a Jean-Claude Carrière e Annette Langmann per continuare il suo avvicinamento al femminile, sempre enigmatico, su cui ha spostato dal precedente L’ombre des femmes l’accento lasciando in ombra quell’ego maschile narcisista che ha condotto finora la narrazione del suo cinema. Sarà forse in questo che ha scoperto una leggerezza anche nel dirci della paura sottile e incontrollabile (e delle vocazioni suicide) di scoprire che all’improvviso l’altro non ci ama più, che è già lontano. E poi l’autobiografia in Garrel prende sempre piste inattese, si camuffa laddove è meno evidente, vissuto sentimentale senza strategie. Ci si fa male e si può essere felici.