Diane Ghirardo è stata di passaggio in Italia dove con il carteggio Lucrezia Borgia, Lettere (1494-1519), Tre lune edizioni, ha vinto il premio letterario Vittoria Aganoor Pompilj. Docente di storia dell’architettura alla University of Southern California, l’occasione ci consente di approfondire diversi aspetti del suo lavoro di studiosa orientata al passato del nostro Umanesimo fino alle questioni dell’architettura contemporanea, sempre con occhi vigili alle relazioni di questa disciplina con la politica e la società.
Dopo la traduzione in inglese de L’Architettura della città di Aldo Rossi ebbe con l’architetto milanese una lunga amicizia divenendo una tra le massime esperte della sua opera. A lui ha dedicato nel 2019 il saggio Aldo Rossi and the Spirit of Architecture (Yale University Press). Iniziamo la nostra conversazione partendo dall’origine dei suoi interessi di storica.

Com’è nato il suo interesse per la storia dell’architettura e qual è stato il suo percorso?
Avevo cominciato gli studi storici senza una precisa preferenza, ma ho avuto la richiesta dal mio professore di occuparmi del rapporto tra politica e architettura durante il New Deal. Da qui, il saggio nel 1989 Le città nuove, nell’Italia fascista e nell’America del New Deal con il quale ho messo a confronto l’edilizia popolare statunitense con quella realizzata durante il regime fascista. La differenza sostanziale da me riscontrata consisteva nel fatto che da noi tutti i progetti si svolgevano senza enfasi, con il minimo di esteriorità, mentre in Italia c’era la volontà educativa di generare un cambiamento delle persone. La «città nuova», quindi, del Fascismo è vista come un luogo della socialità, non solo case di abitazione e basta, ma spazi per l’istruzione scolastica e il tempo libero. In particolare le città sorte dalla bonifica se è vero che hanno un tratto antiurbano che rimanda alla promozione della ruralità, al tempo stesso ve ne è uno urbano. In definitiva tra gli anni ’30 e ’40 l’architettura italiana mostra un numero di ricerche e soluzioni che negli States non sono rinvenibili in modo così concreto nell’articolazione degli spazi collettivi e privati per dare forma a nuovi centri urbani.
È da qui, dagli episodi del Novecento, che prese inizio il mio interesse per la storia del vostro paese, ma poi ho voluto indirizzare le mie ricerche su altre realtà urbane, sempre italiane, ma poco indagate dagli storici americani, Ho cercato, così, di rintracciare in particolare il ruolo delle donne quali protagoniste anch’esse degli eventi della storia.
Un’impresa che si è rilevata da subito molto difficile, ma che ha comunque prodotto un primo risultato nel 2001 con The Topography of Prostitution in Renaissance Ferrara, una ricerca durata otto anni.

Per queste sue indagini sui luoghi della marginalità sociale nell’età rinascimentale immaginiamo non abbia avuto dei riferimenti importanti sui quali poggiarsi.
Verissimo, mi considero in questo senso un’anticipatrice della storia delle donne nel Rinascimento italiano. Altri poi hanno proseguito ampliando il campo in altre città. Io invece ho approfondito vicende storiche come, ad esempio, il ruolo assunto da Eleonora d’Aragona intorno agli anni Ottanta del XV secolo a Ferrara come imprenditrice nella produzione casearia. Nel frattempo ho lavorato intorno alle istituzioni per le donne quali all’epoca i conventi. In particolare quello iniziato da Ercole d’Este, proseguito da suo figlio e salvato dalla vendita al momento della sua morte da Lucrezia Borgia che lo trasformò in una sorta di «centro culturale», per usare un termine di oggi.
Da qui il mio interesse per la Duchessa che più incontravo nelle mie indagini più divergeva dalle narrazioni fatte, ad esempio da Bellonci e da altri. La raccolta del suo epistolario nasce da questa necessità di ricostruzione delle vicende anche architettoniche che la videro protagonista e che mi hanno impegnata vent’anni.

Diane Ghirardo

Ritornando ora agli inizi degli anni Ottanta, sarebbe interessante che ci parlasse dell’Institute for Architecture and Urban Studies diretto da Peter Eisenman a New York, frequentato in quel periodo anche da Rossi e Tafuri…
Ho avuto diversi contatti con l’Istituto da Los Angeles, a iniziare dal mio lavoro sull’architettura del New Deal e del Fascismo. Tutto l’Istituto era filo-Eisenman, dirigeva lui ogni cosa. Litighiamo dal 1976, quando per la prima volta ci incontrammo a Roma. Per me l’architettura è un fatto sociale, mentre lui ha una visione autoreferenziale che non condivido. Quando mi contattò per tradurre L’Architettura della città di Rossi avevo già eseguito diverse stesure, ma ebbi da discutere in modo così esacerbato che mi dovette chiamare Kenneth Frampton per appianare le cose.
Rossi lo conobbi qualche mese prima della consegna della traduzione a San Francisco. Fu un incontro molto piacevole e mi invitò a Milano. Era una persona riservata e credo che pensasse che Eisenman non fosse poi così interessato alla sua architettura.
Tafuri non l’ho conosciuto anche se ho tradotto dei suoi scritti. Ha avuto indubbiamente dei meriti nell’esporre in modo critico le contraddizioni dell’architettura, ma come ho scritto è stata problematica la ricezione del suo lavoro nel mondo anglosassone (Manfredo Tafuri and Architecture Theory in the U.S., 1970-2000, 2002, ndr.)

Riprendendo ancora l’argomento Rossi sul quale è stato di recente pubblicato il suo saggio «Aldo Rossi and the Spirit of Architecture»: in che  maniera ha influenzato il suo lavoro storico.
Mi aveva colpito un breve suo testo biografico rimasto incompleto che è depositato alla Getty Foundation a Los Angeles. Rossi lì spiega l’origine del suo interesse per l’architettura negli anni giovanili quando frequentava i padri salesiani e che gli fecero capire ciò che stava «oltre l’architettura». Penso che tutte le sue opere si possano intendere solo presupponendo che c’è qualcosa che va «oltre» la dimensione immanente della costruzione.
Quando ho avuto la consapevolezza di avere raggiunto questo traguardo anche il mio lavoro di storica ha avuto un significato diverso. Forse esagero, ma non credo. Il significato dell’architettura rossiana va ricercato seguendo questa direzione. Dopo gli anni Ottanta anche il suo pensiero sull’architettura cambia e si rivolge a fatti e questioni che solo in apparenza sembrano non più riguardarla.
Se è vero che l’architettura non è mai separata dalla vita dell’uomo, c’è un qualcosa che in Rossi rimanda a un’altrove che si percepisce, ma è difficile spiegare. È giusto?
È proprio così ed è la ragione per la quale dovremmo occuparci del pensiero più intimo e privato di Rossi, almeno quella parte che credo di avere conosciuto frequentandolo. Dopo la sua morte mi sono sforzata di capire quale fosse la sua visione sovrasensibile dell’architettura, quella per intenderci svincolata dal dato terreno. Mi viene in mente un’immagine che forse fa comprendere questo stato mentale al quale mi riferisco. È quando lui entra all’interno della statua del San Carlone e guarda, salito in alto, all’esterno dall’apertura dell’occhio, il paesaggio che gli sta davanti e fotografa un orizzonte che non ha confini.
A conclusione dei miei studi ho scoperto uno strano fil rouge tra le personalità che ho raccontato. Ad esempio Lucrezia Borgia non parlava mai delle sue opere e dei suoi pensieri, un po’ come Rossi che non si dilungava – se non lo stretto necessario – intorno alla sua architettura.
Nella famosa lettera che Lucrezia scrive a Leone X in punto di morte è evidente che lei è assolutamente convinta di andare in Paradiso raccomandandosi al papa perché accudisse i suoi cari. Credo che Rossi quando disegnava o costruiva le sue architetture si comportasse come un credente orientato verso un altrove che trascende l’esistenza.