Da qualche giorno su Netflix si trova disponibile l’anime Ni no Kuni, film che funge da sorta di «adattamento» dell’omonima serie di videogiochi di ruolo sviluppata dalla giapponese Level 5, a partire dal 2010. L’opera è diretta da Momose Yoshiyuki, animatore che fa parte dello Studio Ghibli, e questa è una informazione che ci ricorda la relazione originaria tra lo stesso studio e il gioco, dal momento che il primo aveva prodotto le sequenze animate de La minaccia della Strega Cinerea, ovvero l’inizio della serie videoludica. Inoltre, a sottolineare il tocco Ghibli, si hanno le musiche di Hisaishi Joe, collaboratore di lungo corso di Miyazaki Hayao.

Qual è la storia del film? Ci sono due giovani protagonisti, gli studenti Yu e Haru, i quali si troveranno coinvolti in una avventura il cui fine è quello di salvare la vita di Kotona, la ragazza di Haru ma per cui anche l’altro prova dei sentimenti. Le vicende che seguiranno li porteranno in un continuo andirivieni tra due mondi che potremmo definire, per nostra comodità o pigrizia, realtà e fantasia – appunto, Ni no Kuni (in giapponese, letteralmente, secondo regno o paese). In questo «altro» spazio, uno dei due (Yu) si ritroverà ad avere caratteristiche diverse ma soprattutto entrambi ritroveranno l’amata: in un altro ruolo, e sempre in pericolo. Per lei, prima combatteranno uno contro l’altro ma poi uniranno le forze per sconfiggere il nemico, e arrivare così al compimento del viaggio, con tutti gli scioglimenti dei nodi della trama che ne seguiranno.

Senza dubbio, si tratta di un film piacevole da vedere, e che offre molto a cui pensare, ma a fine fruizione è facile che venga fuori una sensazione che si potrebbe riassumere in due parole: occasione persa.

Limitandoci al linguaggio audiovisivo – e quindi, senza far derivare il giudizio dalla filiazione con il videogioco – non sarebbe sbagliato dire che, fin da subito, l’appeal figurativo del lavoro in questione è dato dal fatto che ci sembra riconoscere i personaggi come figure simili a quelle che abbiamo seguito e contemplato nei film del rappresentante di Ghibli più noto, Miyazaki. In altri termini: guardando Ni no Kuni, si può senza dubbio riconoscere una specie di calco formale. Però, l’operazione sembra rimanere ad un livello superficiale del design dei corpi. C’è poi da dire che non si riscontra nemmeno quella cura cromatica presente nell’opera dell’autore di Principessa Mononoke (1997), dove – come spiega Riccardo Falcinelli nel suo splendido libro Cromorama – le campiture si contrappongono in maniera netta, mostrando una sapienza visiva superiore.

E la situazione non cambia se invece ci spostiamo ad osservare lo sviluppo drammaturgico, dove forse si possono trovare alcune «stonature». In merito, senza dubbio, la mancanza di interattività, cioè di una caratteristica intrinseca al videogioco, rende determinate apparizioni di personaggi o cambi repentini di scenari non sempre facili da assimilare nell’insieme.

Tuttavia, come anticipato, l’anime Ni no Kuni offre una occasione di riflessione. Nello specifico, sull’argomento della «costruzione di mondi» in ambito animazione.
Nel film, sembra resistere una distinzione di fondo tra realtà e fantasia, nonostante la relazione speculare e la contaminazione tra le parti. In questo quadro, rimaniamo ancorati all’idea di interdipendenza ma sostanziale autonomia tra i poli. Per chi si vuole iniziare al tema, la visione di quest’opera potrà allora essere utile per andare oltre, e cioè capire che da questo «altro mondo» si può tornare, alla maniera di Haru, ma per magari seguire chi – invece – ci indica una strada diversa, attraverso cui riscoprire la possibilità di una realtà che sia già naturalmente fantastica. Se si vuole, si potrebbe dire che il vero «secondo regno» verso cui dirigersi è una destinazione che assomiglia al «paese più vicino» del racconto di Kafka, dove il viaggio è ciò che annulla le barriere tra veglia e sogno, vivi e morti.